
Hurkacz, che quest’anno si è fatto notare superando un turno sia al Roland Garros sia allo Us Open, ha iniziato a toccare con mano il proprio potenziale esattamente un anno fa, dopo la finale persa al Challenger di Shenzhen. “Quel torneo – ha raccontato – mi ha dato un sacco di fiducia, spingendomi a credere molto di più nel mio tennis. Mi ha aiutato a concentrarmi ancora di più negli allenamenti, e ha fatto da prologo a un ottimo finale di stagione”. Nel giro di quattro settimane è passato dall’anonimo numero 426 a un posto nelle qualificazioni dell’Australian Open, e da allora è sempre andato in crescendo, fino all’attuale 79esima posizione della classifica. All’apparenza è merito soprattutto di diritto e servizio, arma supportata dai 196 centimetri, ma in realtà, a detta sua, la vera ragione della sua esplosione è un lungo lavoro mentale svolto con coach Pawel Stadniczenko, che lo allena da un annetto. “Mi ha aiutato tantissimo – continua –, insegnandomi l’importanza di un atteggiamento positivo. È stato il più grande cambiamento che ha portato nel mio tennis: non ho più così tanti alti e bassi, e questo mi ha permesso di competere e vincere a livelli sempre più importanti. Oggi durante le partite sono più tranquillo e più continuo”. Prima, invece, finiva per autodistruggersi, fra negatività e inutili pressioni. “Ho imparato a non abbattermi, e a usare le sconfitte come lezione. In un anno si perde tantissime volte: è giusto approcciare ogni torneo con l’obiettivo di vincerlo, ma bisogna anche ricordare che la sconfitta non è un dramma. Arriva presto una nuova opportunità”.

Il fatto che sia arrivato molto in fretta è uno dei motivi per i quali Hurkacz non è così noto al grande pubblico, insieme al suo tentativo – sempre più difficile al giorno d’oggi – di evitare i social network. Ha soltanto un profilo Facebook, e si limita a informare i suoi fans dei risultati. Non c’è spazio per la sua vita privata e le sue passioni: automobili (anche in pista da spettatore, quando possibile), la pallacanestro che da piccolo ha praticato, la lettura (“mi rilassa, e leggo anche testi che mi aiutano dal punto di vista mentale sul campo”) e la scienza, alla quale si sarebbe dedicato volentieri se non fosse diventato un tennista. Invece ha scelto la racchetta, e oggi è l’unico polacco fra i primi 200 del mondo. Se ce l’ha fatta deve dire grazie sia alla sua Federazione, che anni fa l’ha inserito in un progetto chiamato “Davis Cup Future Program”, nato per finanziare i viaggi dei migliori prospetti del paese, sia all’ITF. “Hubi”, infatti, è stato uno dei tanti atleti ad aver beneficiato di un contribuito di 25.000 derivato dal Grand Slam Development Fund, che attraverso una percentuale degli introiti dei Major punta a sviluppare il tennis nei paesi con meno risorse. Hanno deciso di aiutarlo, e ora lui punta a ripagare la Federtennis polacca portando nel suo paese quei risultati promessi qualche anno fa da Jerzy Janowicz, prima che una lunga serie di infortuni lo obbligasse a un lungo calvario non ancora terminato. “Sarebbe bello aiutare la crescita del tennis in Polonia, così che in futuro molti giovani possano arrivare a competere a livello ATP. Abbiamo già tanti ragazzini che giocano molto bene: mi auguro che un giorno possano arrivare nel tennis che conta”. La stessa ambizione che ha per se stesso, insieme all’obiettivo di dimostrare che a Milano non sarà affatto un intruso.
