A 10 anni, un bambino deve poter avere il diritto di sognare. Kim Eun-hee aveva il desiderio di diventare una campionessa di tennis, ma la sua vita è cambiata da un giorno all'altro. Il suo allenatore l'ha violentata. Poi lo ha fatto di nuovo. E così via, a lungo. Oggi la coreana ha 27 anni, ma all'epoca non sapeva cosa fosse il sesso. Però ricorda di aver avuto paura ogni volta che il suo maestro le ordinava di recarsi nella sua stanza. E ricorda il dolore, il senso di umiliazione. A distanza di anni, Kim ha scelto di raccontare la sua storia. Per farlo, ha scelto una delle agenzie di stampa più importanti al mondo, AFP. “Ho avuto bisogno di anni per capire che si trattava di stupro – ha raccontato – questo incubo è andato avanti per due anni, mi ha detto che era un segreto tra me e lui”. Ha scelto di diventare un esempio, rinunciando al diritto all'anonimato per fare da apripista a tante ragazze che sono costrette a soffrire di abusi sessuali da parte dei loro allenatori. Per quanto non abbia una popolazione troppo numerosa, la Corea del Sud è un paese leader nello sport mondiale. Nel medagliere olimpico finisce spesso tra le prime 10 ed è molto forte in discipline come il tiro con l'arco, taekwondo e pattinaggio di velocità. Tuttavia, rmane un paese gerarchico e patriarcale. La società (e di conseguenza lo sport) è dominata dagli uomini. Come è noto, l'aspirazione di diventare un campione in qualsiasi disciplina porta i giovani atleti a staccarsi presto dalle famiglie, magari rinunciando alla scuola. Molti finiscono in collegi-dormitori in cui l'unico obiettivo è allenarsi e migliorare. In questo senso, la figura degli allenatori è cruciale e assume un'importanza esagerata. Tuttavia, si crea il contesto ideale per abusi di natura sessuale. “L'allenatore era il re del mio mondo – racconta Kim – decideva tutto sulla mia quotidianità: come allenarmi, quando dormire, cosa mangiare. E anche essere picchiata faceva parte dell'allenamento”.
NUMERI INQUIETANTI
In un sistema del genere, molte (troppe) donne scelgono la via del silenzio. Parlarne in pubblico significa rinunciare a qualsiasi aspirazione. In effetti, poche faccende di questo tipo sono uscite dal sottobosco delle indiscrezioni. L'unica a parlarne per davvero, sottoponendosi a un iter estenuante, è stata Isabelle Demongeot, che dopo anni di processi, udienze e un libro-shock ha ottenuto la condanna del suo vecchio allenatore Regis De Camaret. C'è poi stato il caso di Bob Hewitt, ex ottimo doppista degli anni 70, finito nei guai dopo che alcune sue ex allieve hanno denunciato i suoi abusi nei primi anni 80. Anche in Italia è successo qualcosa del genere: tre aspiranti campionesse denunciarono il loro maestro, colpevole di presunte molestie presso il Centro CONI dell'Acqua Acetosa. Nel 2012, Vincenzo Minutolo fu condannato a tre anni di carcere. Secondo i dati diffusi dal Corriere della Sera, la Procura Generale CONI ha messo in piedi 44 procedimenti per reati di molestie sessuali. Due di questi sono legati al mondo del tennis e sono circoscritti nel Lazio. AFP ha ascoltato il parere di Chung Young-chul, psicologo dello sport presso l'Università Sogang di Seul: “Quella coreana è una comunità in cui chi parla viene ostracizzato e ed etichettato come 'traditore' per aver causato vergogna allo sport”. Nel 2014, il Comitato Olimpico Coreano ha commissionato un sondaggio, i cui esiti sono stati inquietanti: è emerso che una donna su sette aveva subito abusi sessuali nell'anno precedente, ma il 70% delle vittime non aveva chiesto nessun tipo di aiuto. Sembra che i genitori delle ragazze rinuncino a qualsiasi tipo di accusa dopo che un dirigente sportivo (solitamente amico o conoscente del violentatore) pone loro questa domanda: “Volete che il futuro sportivo di vostra figlia venga distrutto?”. In tutto questo, le associazioni sportive tendono a chiudere un occhio, magari trasferendo gli “orchi” in nuovi ruoli. Il sistema viene tollerato fino a quando i violentatori producono atleti di buon livello. L'unica cosa che conta è la disperata ricerca del successo sportivo, della medaglia olimpica. I loro abusi sono considerati un piccolo, insignificante prezzo da pagare nel corso del processo. Uno scenario inquietante, che ricorda quello di paesi come la ex Germania Est, Unione Sovietica o la stessa Cina.
10 ANNI DI CARCERE
Nel 2015, un ex campione olimpico di short-track è stato semplicemente multato per aver commesso molestie, in particolare su una ragazzina di 11 anni. C'è poi il caso di Choi Min-suk, allenatore della squadra di curling alle Olimpiadi di Sochi 2014. Una volta accusato di molestie sessuali dalle componenti del team, si è dimesso. Prontamente, è stato ingaggiato per allenare un altro team. Non sempre gli abusi sono di natura sessuale: spesso si scade nei maltrattamenti. Qualche mese fa, la fortissima pattinatrice Shim Suk-hee (vincitrice di quattro medaglie olimpiche, nella foto qui sopra) ha accusato il suo allenatore di averla presa spesso a calci e pugni, costringendola a uno stop di un mese. L'incolpato ha candidamente ammesso di averlo fatto, anche con altre pattinatrici, con il solo scopo di “migliorare” le loro prestazioni. Tornando alla Kim, ha continuato a giocare per anni a livello nazionale, ma dice di essere nauseata dalle giocatrici che ansimano pesantemente sul campo da tennis: a suo dire, il suono le ricorda il suo aggressore. Un paio d'anni fa, durante un torneo, le è capitato di incontrarlo di nuovo. Vederlo ha riacceso i traumi d'infanzia, quando le capitava di sognare che lui provava a ucciderla. “Sono rimasta scioccata nello scoprire che il mio stupratore ha continuato ad allenare giovani tenniste per oltre un decennio, come se nulla fosse accaduto. E allora ho pensato che non gli avrei più dato nessuna possibilità di abusare le bambine”. E allora ha fatto la cosa più normale del mondo: si è recata al primo commissariato, denunciandolo. Sono immediatamente arrivate le testimonianze di quattro sue amiche, pure loro vittime di abusi. Anche Kim ha accettato di testimoniare, a patto che il suo orco fosse allontanato dalla stanza. Anche lo scorso ottobre non ha avuto la forza di entrare in aula quando il giudice annunciava la sentenza che lo ha condannato a 10 anni di carcere. “In quel momento ho iniziato a piangere come una fontana, trasformando le mie emozioni da tristezza a felicità”. Adesso Kim ha smesso di giocare e insegna tennis in una palestra di Seul. “Vedere i bambini ridere e divertirsi giocando a tennis mi guarisce – dice con un sorriso – voglio che diventino atleti e persone felici, a differenza di me. Perché bisogna diventare una stella olimpica se per arrivarci bisogna essere picchiati e matrattati?”. Già, perché? Per fortuna, anche se in ritardo, Kim si è data la risposta giusta.