A Madrid si è rivisto Dominic Thiem, che si era preso qualche settimana lontano dal tennis per staccare da una quotidianità diventata sempre più stressante dopo il titolo allo Us Open. La storia del tennis (e dello sport in generale) è piena di campioni fragili, che una volta centrati gli obiettivi di una vita si sentono svuotati e faticano a ripartire. Ma spesso c’è il lieto fine

La necessità di trovare sempre nuovi stimoli

“Sono stato completamente fuori dal tennis per qualche settimana, e non ho idea di cosa aspettarmi dal mio ritorno nel circuito”. Così, con una nota sul proprio sito web (in tempi di comunicazione social è uno dei pochi ad aggiornarlo ancora), Dominic Thiem ha accompagnato il suo ritorno a Madrid, che gli ha dato un convincente successo all’esordio contro il qualificato statunitense Marcos Giron. L’averlo ritrovato è una buona notizia indipendentemente dalle sue possibilità di far bene, dopo che dall’intervista rilasciata il mese scorso al quotidiano viennese Der Standard era emerso un quadro dai dettagli preoccupanti. L’austriaco aveva confessato di essersi sentito svuotato già dopo il successo allo Us Open, e di aver bisogno di prendersi una pausa da quella quotidianità da campione diventata sempre più stressante. I social muti dal 7 marzo avevano infittito il mistero, ma per fortuna il 23 aprile è apparso un post rassicurante con la scritta “back to training”, e ora che Thiem ha fatto il suo ritorno alla Caja Magica il peggio sembra alle spalle.

Quanto successo al numero 4 del mondo è tutt’altro che una novità nel mondo del tennis, sport che può regalare molto ma pretende almeno altrettanto sotto forma di sacrifici, a tal punto da aver prodotto negli anni una lunga lista di vincenti depressi. Nel tennis bisogna viaggiare tantissimo, stare mesi lontano da casa perdendosi amicizie e ricorrenze, e pian piano possono emergere fragilità sconosciute, specie quando gli obiettivi rincorsi per una vita intera diventano finalmente realtà. Thiem voleva a tutti i costi uno Slam, se l’è preso a New York e dopo la sbornia di emozioni (con l’asterisco a causa degli spalti mezzi vuoti e della situazione che continua ad accompagnare il circuito) si è sentito svuotato, faticando a trovare nuovi stimoli e a ricalibrare il mirino verso altri obiettivi. Non vale lo stesso per tutti: c’è anche chi vince e poi ha ancora più fame, ma sono in molti ad accusare il peso di essere campioni. In certi casi si traduce in una sorta di stanchezza mentale risolvibile staccando la spina per un po’; mentre in altri – e la linea è piuttosto sottile – la situazione può generare una vera e propria depressione clinica.

Il tentato suicidio di Noah e Becker, e gli altri casi del passato

La voglia dei campioni di evadere dalla loro dimensione sportiva può essere dovuta a un fenomeno chiamato “nikefobia”, in psicologia la paura di vincere (dal greco nike: vittoria), oppure a una fatica mentale generata dalla continua ricerca di obiettivi sempre più difficili, che spinge ad alzarsi ogni mattina con la consapevolezza di dover fare a pugni coi propri limiti. Una volontà che col tempo può venire meno, come successo a molti. Dai casi meno problematici come quello di Jim Courier, che nel ‘93 al Masters di Francoforte tirò fuori dal borsone un romanzo (Maybe the Moon, di Armistead Maupin) e si mise a leggerlo durante i cambi di campo, in modo da dimenticare servizio, dritto e rovescio per almeno 90 secondi. Oppure quello di Marat Safin, che nel 2007, nel bel mezzo della stagione, decise di cambiare aria per un po’ unendosi a una spedizione di scalatori russi che partirono per attaccare uno degli “ottomila” dell’Himalaya. “Mi renderà più forte”, scrisse in una lettera direttamente dal campo base di Katmandu, anche se dopo due settimane – probabilmente resosi conto che non era esattamente una passeggiata – preferì abbandonare la compagnia e tornare a imbracciare la racchetta.

Anche Justine Henin quando smise la prima volta – da numero 1 del mondo – spiegò di voler star lontana dalle pressione e viaggiare per il mondo come turista e non come tennista, mentre John McEnroe, stufo delle eccessive pressioni che lo accompagnavano a ogni singolo torneo, si prese una pausa nel 1986 (approfittandone per sposarsi con l’attrice Tatum O’Neal) e un’altra l’anno successivo. Più rumoroso il caso di Yannick Noah, che non ha nascosto di essere arrivato a un passo dal suicidio, a causa di una forma importante di depressione figlia del fatto che si sentisse obbligato a vincere a tutti i costi. Pensò di farla finita, ma nei periodi più grigi si aggrappò alla musica reggae del mito Bob Marley e all’amore per l’Africa, la sua terra d’origine, trovando la forza di superare le difficoltà. Se l’è passata brutta anche Boris Becker, che – come lui stesso ha raccontato nella sua autobiografia, pubblicata quasi vent’anni fa – per un periodo combatté i dolori fisici con gli antinfiammatori e quelli psicologici con le pillole per il sonno, annaffiando il tutto con un bel po’ di whisky. Una situazione dal quale faticò a ritrovare la luce, arrivando a chiedere alla moglie di sparargli o a uscire spesso sul balcone di casa minacciando il suicidio.

Pellegrini, Phelps, Vonn: le star depresse degli altri sport

Facendo un giro fra i campioni degli altri sport, di casi come quello di Thiem se ne trovano numerosi, più o meno gravi. Qualche anno fa in Italia fecero rumore le difficoltà psicologiche di Federica Pellegrini, il cui lato fragile aveva iniziato a ribellarsi di fronte a quell’asticella che doveva necessariamente alzarsi in continuazione, sempre alla ricerca di nuovi record. Nel ciclismo c’è stato invece quello del velocista britannico Mark Cavendish, al quale nell’agosto del 2018 è stata diagnosticata una vera e propria depressione clinica, superata due anni dopo e – come lui stesso ha spiegato con grande orgoglio – senza l’aiuto di farmaci. Il golfista Sergio Garcia, giacca verde all’Augusta Masters di 4 anni fa dopo una lunga serie di delusioni, arrivò invece a dire che non si divertiva più a giocare a golf, mentre la “zarina” russa Yelena Isimbayeva, la donna che per anni ha ritoccato a piacimento ogni record nel salto con l’asta, si prese una pausa a causa dello stress, salvo poi tornare e vincere ancora un paio di ori.

La regina dello sci Lindsay Vonn, invece, nel 2008 raccontò di sentirsi svuotata e senza più la voglia nemmeno di alzarsi dal letto al mattino, stanca di una vita apparentemente perfetta ma invece ricca di difficoltà; mentre i due giganti del nuoto Ian Thorpe e Michael Phelps, dopo aver vinto tutto incontrarono parecchie difficoltà personali. Il primo, che disse basta a soli 24 anni, confessò successivamente di aver pensato più e più volte al suicidio, mentre lo statunitense si infilò in una serie di guai giudiziari (qualche canna, più due ritiri della patente per guida in stato di ebbrezza), e successivamente spiegò che in realtà i suoi comportamenti sopra le righe erano semplicemente originati da una sorta di depressione post-Olimpiadi. Qualche caso anche nell’universo dei motori, dove la ragione lascia spazio all’adrenalina ma le emozioni pesano comunque. Dopo aver vinto un paio di mondiali, Casey Stoner iniziò a patire sempre di più lo stress e già dal 2012 si è ritirato nel suo ranch in Australia, uscendo completamente dal mondo delle corse ad appena 27 anni; mentre nel ’92 il mitico Alain Prost decise di prendersi un anno sabbatico, tornando in Formula 1 dodici mesi dopo e vincendo immediatamente il suo quarto (e ultimo) titolo mondiale. Una situazione, quest’ultima, comune a molte storie di campioni depressi, capaci dopo le difficoltà personali di ritrovare la strada del successo. Anche per questo, Thiem può stare tranquillo.