Quarant’anni fa, a Santiago del Cile, l’Italia vinse la sua prima e unica Coppa Davis. Il “quarto uomo”, Tonino Zugarelli, fu decisivo: batté gli inglesi sull’erba del Campo 1 di Wimbledon, nei quarti di finale. Il racconto della rivalità, anche sociale, con compagni e capitano. E della vita dura, adesso, a quasi 67 anni, per campare.Il quarto uomo della Coppa Davis 1976 ha ancora i baffi, è vicino ai 67 anni ed esce di casa, tutte le mattine, per guadagnarsi la giornata. Col tennis. Tonino Zugarelli, “Zuga”, aveva un gioco brillante, maschio e gagliardo. Essersi fatto spazio tra due superstar come Panatta e il capitano non giocatore Pietrangeli, e due campioni come Barazzutti e Bertolucci, fu un’impresa. Nata in borgata, tra disagio e piccola criminalità: una storia che gli piace chiamare «riscatto, perché a casa mia era un successo se non mancava il necessario».
Il grande pubblico ha ancora negli occhi la foto di gruppo con Pietrangeli, Panatta e l’insalatiera in primo piano. Però…
«Però se non si fosse passato il turno in Inghilterra, credo che non si sarebbe mai parlato di magliette rosse, del boicottaggio al boia Pinochet e di tutto quello che la gente ricorda ancora dopo quarant’anni da quella Coppa Davis».
In effetti lei batté Roger Taylor sull’erba di Wimbledon, giocando al posto di Barazzutti. Ma è vero che voi due facevate comunella mentre, di là, c’erano Panatta e Bertolucci e manco vi rivolgevate la parola?
«Ho sentito raccontare questa storia. Anche ultimamente, per le celebrazioni della vittoria: addirittura, Nicola Pietrangeli ha detto che ci vedeva correre a coppie, due da una parte e gli altri due nella direzione opposta. Ma non era proprio così: magari vedevamo la vita in maniera diversa, Adriano e Paolo si facevano vedere al night al sabato, mentre Corrado e io non frequentavamo quegli ambienti. Però, se davvero ci fossero stati due clan, se non ci fossimo rispettati tra noi, non saremmo diventati una grande squadra».
Torniamo al dicembre del ’76. La sinistra faceva azioni in Parlamento, scendeva in strada per spingervi a restare in Italia. Lei aveva 26 anni: cosa ne pensava?
«Non è che ignorassimo cosa capitava nei regimi sudamericani. Sapevamo bene delle dittature militari. Però, come atleti, eravamo lontani da certe questioni. Come dire: anche oggi muoiono dei civili in Siria, eppure la gran parte della gente vive e fa i suoi affari normalmente. Pietrangeli, in quel frangente, ebbe il grande merito di portarci a disputare la finale, aveva anche conoscenze politiche per sostenere la sua scelta. Ma la finale l’abbiamo conquistata noi, giocando e vincendo: eravamo adulti e vaccinati, sapevamo cosa si doveva fare. Poi, ecco, ci terrei a dire che il nostro vero punto di riferimento, in squadra, era Mario Belardinelli: era lui il nostro coach».Non vi prendevate proprio, lei e il capitano?
«No, è che la mia estrazione era semplice e povera. Mettermi in mostra non è mai stato nella mia indole: per lui, invece, valeva esattamente l’opposto. Quindi non era facile andare d’accordo. Adesso siamo amici, ci vogliamo bene, ma a quei tempi c’erano attriti, perché avevamo modi di vedere le cose opposti. Lui amava andare a cena da Gaetano Caltagirone, per dire, mentre a me non me ne importava niente. Preferivo stare a casa con mia moglie e i miei figli: rifiutando tutte le cose che per lui erano normali e giuste, forse ce l’aveva un po’ con me».
I due romani, a parte Nicola, eravate lei e Adriano. Lui alto, bello, famoso anche se si definiva uno del popolo, uno di sinistra. Ma quello non era già il suo, di ruolo?
«Un momento: lui era il figlio del custode, sì, ma mica del campetto in periferia, stava ai Parioli. Perciò il padre aveva una casa, uno stipendio: niente di lussuoso, ma non dovevano controllare se il giorno dopo pioveva, come me che stavo in una specie di villaggetto costruito a fianco del Tevere. Lui partì più avvantaggiato, anche se non veniva da una famiglia di possidenti. Io sono cresciuto a Ponte Milvio, Tor di Quinto. Che non era come adesso, ora ci sono i locali; negli anni Sessanta trovavi solo il tizio che vendeva le cozze col limone e i cocomeri d’estate».
Eppure lei ha giocato a tennis e non al pallone.
«Per necessità. Come tutti i ragazzi di borgata, tiravo calci al pallone. Ero forte: correvo, saltavo uno e 75 all’italiana, segnavo tanto di testa. Avevo 17 anni. Giocavo da attaccante o ala destra. Feci anche un provino per la rappresentativa del Lazio: mi fecero fare uno scatto e un cross, ero incavolato nero perché avevo giocato un minuto esatto. Ma ero un ragazzo dell’Olimpica, la polisportiva di fronte al Lungotevere, mica provenivo dai vivai ufficiali. Però fui notato ugualmente dal mago di Turi, Oronzo Pugliese. Fui acquistato dalla Roma, che però mi girò all’Almas in serie D. La presi talmente male che smisi, subito. E intanto, per portare a casa due soldi, facevo il raccattapalle e il palleggiatore: quando uno dei signorotti che prenotavano l’ora non veniva, lo sostituivo e mi davano la mancia. Sicuramente, rispetto ad altri tennisti, ho perso tanto tempo».
È vero che negli States aveva molto sèguito perché somigliava a Burt Reynolds, l’attore di “Un tranquillo weekend di paura”?
«Diciamo che nel tennis gli altri tre hanno avuto indubbiamente più successo di me. Però io, come dire, anche da quel punto di vista mi sono tolto delle soddisfazioni: i baffi alla Reynolds andavano molto in voga e, negli Stati Uniti, forse ero più famoso di Adriano. Comunque il tennis non mi ha dato ricchezza, non mi ha dato notorietà ma la soddisfazione di essere stato parte della storia italiana».
Gli altri tre sono stati capitani della nazionale, hanno avuto e hanno incarichi, li si vede in tivù. Lei è fuori dal giro.
«Mi mandarono via una prima volta dalla federazione perché un funzionario, Chiarino Cimurri, aveva preso di petto una mia frase sull’organizzazione del lavoro e mi cancellò dalla rubrica. Non mi chiamò mai a firmare il rinnovo del contratto e mi ritrovai, letteralmente, col sedere per terra. Quando Adriano diventò direttore tecnico, poi, lavorai con lui tre anni: facemmo crescere Pistolesi, Gaudenzi, Furlan, Pescosolido, Camporese, Nargiso. Mica male, no? Sono diventati giocatori forti. Poi Panatta fece salire l’attuale presidente e, quando Adriano fu mandato via, fecero lo stesso con me. Senza che avessi detto nulla: mi fecero secco. Eppure qualche merito mi sembra di averlo avuto. Viviamo in un Paese di prevaricatori».Forse la ebbe anche la sfortuna di avere davanti tre campioni negli stessi anni: lei è stato 27 al mondo, oggi sarebbe il migliore degli italiani.
«Tutti dicono 27 al mondo ma c’è un vecchio Tennis Weekly, la pubblicazione che l’Atp stampava tutte le settimane, in cui la classifica diceva 19. Bisognerebbe andare a spulciare gli archivi dell’anno 1977: a me non cambia nulla, però dire che sono stato 30 al mondo mi dà un po’ fastidio perché non è così. Certo, se giocassi adesso e rimanessi, come ho fatto allora, per sette-otto anni nei primi trenta del mondo, sarei milionario. Invece devo alzarmi alle sette, macché, alle sei e mezza esco di casa per andare a lavorare. Abito a Trevignano, sul lago di Bracciano; al mattino magari vado a Roma, faccio giocare qualche amico, do qualche lezione. E sono il supervisore della scuola dove lavorano i miei due figli: un agriturismo con campi da tennis a Sutri, in provincia di Viterbo, si chiama Gentile, è un posto molto carino. Non ho rimpianti, però: il tennis mi ha dato tanto e, in realtà, non mi interesserebbe neanche avere un sacco di soldi. Solo un po’, per stare più tranquillo e rallentare il ritmo».
Il tennis di oggi le piace?
«Tutti gli sport sono cambiati. Oggi è esasperato, estremamente fisico, ma guardandolo ci sono sfumature che gli intenditori possono ancora apprezzare. Una volta, era tutto più rustico, più umano».
Con chi si sente di più, dei suoi vecchi compagni?
«Capita che ci mangiamo un piatto insieme a Roma. Gioco a golf con Panatta e Barazzutti, ogni tanto. Sono come nel tennis: Adriano fa un colpo eccezionale, poi una flappa (quando si colpisce il terreno prima della pallina, nda). Corrado è preciso: primo colpo nel fairway, poi si avvicina, poi la palla in buca. Regolare. Tra i due, comunque, il più forte sono io».
Lei non giocò se non a risultato acquisito, ma è grazie a lei che l’Italia disputò la finale a Santiago del Cile: ha un ricordo più vivo degli altri, pensando a quel weekend?
«No. Non per dire, ma allora la finale o la semi la giocavamo quasi tutti gli anni. Per cui non capimmo immediatamente la portata dell’evento, a parte la gioia naturale di tutti. E poi in Cile eravamo partiti con le mogli e i figli: se non ricordo male, quella sera facemmo cena, aprimmo una bottiglia e poi tutti a nanna. Non pensavamo certo che quel giorno avrebbe cambiato la storia del tennis italiano, ecco».
La sua, di vita, sarebbe cambiata se quella volèe sul set point nel quarto set della finale di Roma 1977 fosse passata, invece di morire sul nastro?
«Che sfortuna. Se avessi vinto quel punto il torneo era mio, perché Gerulaitis era morto: nel quinto set, sarebbe crollato. Però uno deve anche pensare che se l’è giocata, la finale, quando magari poteva perdere al primo turno. In fondo anche Adriano ha vinto Roma e Parigi insieme, annullando match point nei primi turni in tutti e due i tornei. Se avesse perso quei due punti…»
Solo che lui ha vinto.
«Eh. La domenica il Signore si riposa: si vede che, quella domenica, s’era proprio addormentato».
QUARANT'ANNI FA, SANTIAGO DEL CILE
LE IMMAGINI STORICHE DI GIGI OLIVIERO
Intervista pubblicata su L’Unità di domenica 18 dicembre 2016
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