Ha il cento per cento di Cina nel dna ma un rapporto speciale con gli Stati Uniti, dove ha conquistato in meno di un anno tre Challenger e un Atp 250, il primo nella storia del suo paese. Ora si prepara a guidare la next gen di Pechino
Per errore, sul numero di marzo de Il Tennis Italiano, il seguente articolo è stato attribuito a Stefano Semeraro
Abbiamo cominciato a conoscere Yibing Wu nell’estate scorsa, per un motivo preciso: non riusciva a perdere. A partire dal 6 giugno ha vinto una raffica di partite nei quattro tornei ai quali ha partecipato, in un tour americano delle competizioni intermedie: Orlando in Florida, Dallas in Texas, Rome in Georgia, ai piedi dei Monti Appalachi, e infine Indianapolis. Tranne Dallas, li ha vinti tutti. «Eh, ma sono tornei minori». Allora si è presentato agli Us Open, iscritto alle qualificazioni, e questa pervicace immunità alla sconfitta si è confermata pure lì. Ha battuto Berankis, poi il nostro Stefano Travaglia dopo una gran lotta (67 76 63) e poi l’irascibile e talentuoso Corentin Moutet. «Eh, ma sono solo qualificazioni». Allora ha fatto irruzione nel tabellone principale dove ha pescato una testa di serie bassa: il picchiatore georgiano Nikoloz Basilashvili. Lo ha schiantato in tre set (63 64 60) e mica si è fermato: ha passato pure il secondo turno, dopo una maratona che lo ha visto prevalere su un altro qualificato, il portoghese Nuno Borges. Totale cinque vittorie nello Slam, quindici consecutive. Per fermarlo c’è voluto Daniil Medvedev, non uno qualunque.
«Eh, ma non ha vinto tornei importanti». Sono trascorsi alcuni mesi e Wu ha smontato anche questo luogo comune. Dove? Questa è di nuovo una storia americana. Del resto, questo soggetto tennistico volante non identificato ha un feeling innegabile con gli Stati Uniti, visto che è stato campione junior a Flushing Meadows nel 2017. Stavolta è successo a Delray Beach (Florida), in un Atp 250 dove il percorso del ventitreenne di Hangzhou è stato impressionante: ha preso gli scalpi di Mmoh, Shapovalov, Mannarino, Fritz prima di risolvere la finale in un drammatico triplice tie-break, superando John Isner. C’è un piccolo particolare: questa partita ha fatto la storia. Perché è la prima vittoria di un cinese nel circuito maggiore. Le donne c’erano riuscite, gli uomini mai.
Per molti anni ci siamo sentiti ripetere che prima o poi il gigante cinese si sarebbe svegliato e sarebbero stati guai per tutte le superpotenze tennistiche. Probabilmente è ancora presto per ridisegnare la geopolitica delle racchette, ma, se un giorno la Cina dovesse davvero esplodere, si ricorderà questo successo di Wu come pietra angolare, come prima pagina di un nuovo capitolo. Nel circuito si aggirano con buone speranze altri due vincitori cinesi di Challenger: per Zhizhen Zhang a Cordenons è arrivato il primo titolo, mentre Juncheng Shang ha alzato il trofeo a Lexington. Sta accadendo qualcosa? La Cina è già molto forte nella Wta e sta mettendo a punto dei progressi tecnici. Periodo Covid a parte, sono aumentati i tornei di caratura internazionale; la Federazione cinese ha varato un grande progetto per gli under 14 (Road to Wimbledon) e ha messo sotto contratto una serie di coach e specialisti stranieri affinché dispensino la loro competenza nelle accademie. Poi c’è Michael Chang, icona per ogni tennista cinese, che ha puntato sulla città di Shenzhen per lanciare un progettino dai numeri abbastanza impressionanti, i cinquanta campi della Mission Hills Tennis Academy.
Wu non è il prodotto di queste mosse. Il suo talento, esploso da junior, era poi stato frenato e mortificato da una serie di eventi: la cessazione del rapporto con il coach Sven Groeneveld e una combinazione devastante di infortuni e stop pandemici. In trentaquattro mesi, dal marzo 2019 al gennaio 2022, questo ragazzo si era rotto in tanti punti del manuale di anatomia (spalla, polso destro, gomito destro, schiena) ed era scomparso dai nostri radar. Una grande promessa non mantenuta, anzi, cancellata e rimossa dalla grande memoria del tennis. Poi, appunto, è rinato. Non ha grande esperienza mondiale, è quasi un debuttante ma sta andando forte e ora che ha fatto la storia potrebbe fare anche un po’ di geografia, spostando lontano dagli amati States il baricentro delle proprie operazioni e provando a vincere anche altrove. Può farcela, per un motivo estremamente semplice: gioca molto bene. Non mostra punti deboli dal punto di vista tecnico, è pericoloso e regolare nei due fondamentali da fondo campo dove il dritto espone l’avversario a una potenza impressionante, capace di stabilizzare lo scambio a ritmo altissimo ma anche di esplodere dei vincenti di rara potenza. A Delray Beach ha davvero sconvolto i piani di gara e le sicurezze di Fritz, soprattutto: un top ten in gran forma.
Ascolta tanta musica e si diletta con la cucina, sia quella da guardare in tv, sia quella da curare di persona. È un ventenne contemporaneo, con una normale predilezione per una birra ogni tanto e una inesorabile ossessione per i videogiochi. Ha iniziato con il badminton e ama il basket (Kevin Durant, in particolare, è il suo idolo). Allenato ora da Gerardo Azcurra (argentino, 37 anni), Wu ha nei suoi due connazionali i migliori amici nel tour: Shang e Zhang, che lui chiama affettuosamente e rispettivamente Little Jerry e Big Jerry. Con il primo condivide molto tempo (il secondo ha scelto di giocare di più in Europa), ma in ogni caso si sentono tutti spesso, scambiandosi giudizi e consigli. Sono in competizione, vogliono lasciare un segno per il tennis cinese e Wu, che ora ha come obiettivo l’ingresso nei primi trenta della classifica, è quello che ha tagliato il primo traguardo serio. Agli inizi di febbraio dell’anno scorso era il numero 1121 del mondo, oggi è intorno alla sessantesima posizione: quante cose cambiano in un anno. Si cambia lo scenario della propria vita, si diventa grandi.