"Lo sport non divide, unisce".
Lo diceva Francesca Schiavone in uno spot pubblicitario ideato dal Consiglio dei Ministri, realizzato nel suo momento di massima popolarità, subito dopo il successo al Roland Garros. In un periodo storico difficile, fa piacere segnalare che il messaggio sia ancora di moda nel nostro sport. Facce, razze e colori diversi, uniti dal verde dei prati e dall'ovale di una racchetta da tennis. I 256 partecipanti del tabelloni di singolare (uomini e donne) rappresentano oltre cinquanta nazioni. Sono lontani – e irripetibili – i tempi in cui gli Stati Uniti avevano una quarantina di top-100. Oltre alle nazioni storiche e tradizionali, ci sono tanti paesi che fino a qualche anno fa non avrebbero mai immaginato di avere uno o più rappresentanti nel tempio del tennis. Per esempio, la Bosnia Erzegovina. Nata dopo lo sgretolamento della Jugoslavia, è stata sventrata da una tremenda guerra civile. Proprio in quegli anni nasceva Damir Dzumhur, numero 27 del draw e recente vincitore al torneo ATP di Antalya. Il viaggio e la stanchezza non gli hanno impedito di battere Maximilian Marterer. Una passeggiata, se confrontata alle condizioni in cui è dovuto crescere. Damir ha mosso i primi passi a Sarajevo, presso la Zetra Olympic Hall, impianto costruito per i Giochi Invernali del 1984 e sventrato dalla Guerra dei Balcani (1992-1996). Ancora oggi, non è stato ristrutturato. Lì dentro, Dzumhur ha iniziato a giocare quando aveva cinque anni. Ma ben presto dovette cedere il legno della superficie ai rifugiati che cercavano un po' di legna da bruciare per scaldarsi quando la temperatura andava sotto zero. Però l'aiuto di papà Nerfid gli ha permesso di continuare a giocare con relativa serenità. Migliorava anno dopo anno, maturava la convinzione di diventare un buon professionista. Grazie a lui, oggi il tennis è sempre più importante in Bosnia Erzegovina. “Tutti seguono il tennis, tutti guardano le mie partite, seguono la squadra di Coppa Davis”. Non proprio l'effetto che aveva avuto Novak Djokovic in Serbia, ma il principio è lo stesso. “Io vorrei sviluppare il tennis il più possibile – racconta Dzumhur – a fine carriera aprirò un'accademia o farò qualcosa per aiutare i più giovani a giocare e provare ad aiutare i più talentuosi a diventare buoni professionisti”.
ONS JABEUR IN NOME DI UN CONTINENTE
L'Africa rimane una piaga per il tennis. Pochi, pochissimi giocatori escono dal continente nero. Ancora meno ragazze. Per questo, la figura di Ons Jabeur è fondamentale. Quando vinse il Roland Garros junior, si pensava che potesse fare qualcosa di meglio. Oggi è numero 130 WTA e ha conquistato una wild card vincendo un torneo ITF a Manchester. Già che c'era, ha passato il primo turno e ha scritto un pezzettino di storia tennistica del suo paese. Non accadeva dal 2005 che una tennista di matrice araba non vincesse una partita a Wimbledon. L'ultima era stata Selima Sfar. “Sono orgogliosa di rappresentare il mondo arabo e la Tunisia – ha detto dopo il bel successo contro la Golubic – penso di poter essere un buon esempio per i bambini e i ragazzi che aspirano a diventare qualcuno”. A suo dire, in Tunisia è molto difficile innamorarsi del tennis a causa dell'ingombrante concorrenza del calcio. Tuttavia, essere la numero 1 del paese garantisce una certa visibilità. Lo sa bene anche Malek Jaziri, a cui è stato addirittura intitolato un campo nella nativa Bizerte. “Io sono contenta di essere tunisina – dice la Jabeur – molte persone hanno guardato il mio match di primo turno. Ne sono contenta e spero di continuare a rendere orgogliosi i miei connazionali”.
IL FONDO MONETARIO DEL TENNIS
Fino a qualche anno fa, la Grecia era considerata il paese dei tennisti mancati. Sampras, Philippoussis, Kyrgios… tutti con origini greche ma con altri passaporti. Adesso il paese dei templi, reduce da una spaventosa crisi economica, gode insieme a Maria Sakkari e (soprattutto) Stefanos Tsitsipas. Oggi è numero 35, ha superato il francese Barrere e salirà ancora. Sperava di fare altrettanto la muscolare Sakkari, che però fatica sui campi in erba: si è arresa al primo turno contro Sofia Kenin. “Stiamo facendo entrambi un buon lavoro – ha detto la Sakkari, parlando del tennis in Grecia – Stefanos è fantastico, penso che per lui il cielo sia l'unico limite. Credo che abbiamo ottime chance di entrare presto tra i primi 10. Il tennis sta crescendo grazie a noi”. Fino a oggi, la Grecia non ha praticamente ospitato tornei. C'era qualche Challenger o evento ITF quando i due erano troppo piccoli “E io non ho mai avuto una wild card in vita mia” ha detto la Sakkari. Il tennis ha trovato una discreta globalizzazione grazie al Grand Slam Development Fund, un fondo pagato dai tornei del Grande Slam per investire con progetti e strutture nei paesi in via di sviluppo. Nato nel 1986, ha distribuito oltre 50 milioni di dollari, di cui tre fanno parte del budget 2018. Ne hanno usufruito alcuni futuri campioni, altrettanti sono diventati almeno buoni giocatori. Ben 37 partecipanti a Wimbledon 2018 (circa il 15% del totale) ha avuto un qualche contributo dal fondo monetario tennistico. Tra loro, i rappresentanti di paesi inediti per il tennis. Per esempio, la Moldavia. Il n.81 ATP Radu Albot si è costruito una classifica per giocare gli Slam, ed è il miglior moldavo di sempre. “È sempre bello sapere di essere seguito e sostenuto – dice Dzumhur – essere un modello comportamentale è una grande cosa, ti fa capire che hai realizzato qualcosa di grande”. Maria Sakkari è d'accordo. “Vedo come vengo osservata dai bambini: è una sensazione molto bella sentirsi un punto di riferimento. Se qualche anno fa mi avessero detto che sarei diventata un modello per il tennis greco, non ci avrei creduto”. E invece, grazie a una globalizzazione sfrenata, l'impossibile è diventato possibile. Ormai non ci sono più confini, visto che hanno vinto grandi eventi paesi come Serbia, Bielorossia, Lettonia e altri ancora. Quando ha ideato il suo slogan più noto, nel cuore degli anni 80, Benetton non avrebbe mai pensato che sarebbe diventato una perfetta descrizione del mondo del tennis.