Nel quinto set Anderson è stato superiore sotto tutti i punti di vista: mentale, fisico, di gestione dei punti, dei momenti e delle situazioni. La partita si è trasformata in una guerra a chi indovinava prima quattro punti nello stesso game, ma l’ha combattuta quasi da solo, perché Isner non è mai riuscito a farsi pericoloso. In venticinque turni di risposta Long John non è mai arrivato a 40 e poche volte a 30, mentre il sudafricano ha annusato la vittoria in più di un’occasione, continuando a provarci, provarci, provarci, tanto da aver vinto ben 27 punti in più: una quantità che volendo può essere sufficiente per portare a casa un set. Ha avuto una palla-break sul 7-7, una sul 10-10, due di fila sul 17-17, ma nonostante Isner si facesse sempre più ciondolante il gigante di Greensboro ha mostrato degli attributi d’acciaio, continuando a negare ogni chance, per la gioia di un Justin Gimelstob indiavolato in tribuna, in giacca e cravatta. Si è trovato 0-30 sul 21-21, poi di nuovo sul 23-23, ma non ha mai fatto una piega, affidandosi alla cosa che sa fare meglio: servire e – all’occorrenza – tirare il drittone può forte che potesse. Gli è andata bene a lungo, fino a polverizzare le 5 ore e 31 minuti di Querrey-Cilic del 2012 (secondo match più lungo nella storia di Wimbledon), e pure i 42 game al quinto di Karlovic-Zeballos all’Australian Open 2017 (secondo match più lungo negli Slam in termini di game al quinto set) ma nel quarantanovesimo gioco ha dovuto arrendersi, complice un punto maledetto che resterà il simbolo della partita di Anderson. Dopo aver conquistato il primo quindici del game, sul 24-24, Anderson è scivolato a terra nel ribattere la solita prima-monstre dello statunitense, perdendo la racchetta di mano. Ma invece che arrendersi, dopo sei ore e mezza si è rialzato in un batter d’occhio e d’istinto ha raccolto il telaio con la mano sinistra, così ha rimandato la palla dall’altra parte con un diritto mancino. Debolissimo, ma sufficiente per tenere vivo un punto che poi ha portato a casa, prendendosi un altro 0-30 e poi riuscendo finalmente ad aggiungerci un altro piccolo quindici, finalmente quello buono per mandare in tilt Isner, e conquistare il break più importante della sua carriera.
UNDICI ORE FRA QUARTI E SEMIFINALIDid he just…? Yep. #Wimbledon pic.twitter.com/WvcRrRSAcI
— ATP World Tour (@ATPWorldTour) 13 luglio 2018
Più che un normale turno di servizio, il game seguente è stato una liberazione: ha perso il primo punto, ma poi ne ha vinti quattro di fila e quando l’ultimo diritto di Isner è terminato largo non è riuscito nemmeno a sorridere. Una scena quasi surreale: era talmente provato che sembrava avessero perso entrambi, invece si era appena regalato la seconda finale negli ultimi quattro Slam, e pure un posto fra i primi 5 giocatori del mondo. Ma dopo una fatica simile ci vuole tempo per comprendere la qualità del risultato raggiunto. Si è meritato ogni singolo punto dei 1200 che lunedì andranno a gonfiare ulteriormente il suo bottino, anche se c’è più di un dubbio in vista della finale di domenica, visto che fra quarti e semifinale è rimasto in campo quasi 11 ore, e indipendentemente dall’esito di Nadal-Djokovic domenica sul Centre Court si troverà di fronte un giocatore superiore in tutto e per tutto, e anche nettamente più fresco. Ci fosse stato il tie-break al quinto set, come avviene allo Us Open, avrebbe risparmiato più o meno un paio d’ore di fatica extra, e in un tennis che sta provando a fare il possibile per diventare veloce la scelta di continuare come accadeva cent’anni fa sembra un controsenso, anche secondo i giocatori. “Credo – parola di Anderson dopo il successo – che certe situazioni dovrebbero essere un segnale per l’inserimento del tie-break al quinto set in tutti gli Slam”. L’ha detto lui: più chiaro di così…
WIMBLEDON – Semifinali maschili
Kevin Anderson (RSA) b. John Isner (USA) 7-6 6-7 6-7 6-4 26-24