LO CHIAMAVANO BROADWAY VITAS DATA LA SUA PASSIONE PER LE NOTTI NEWYORCHESI, LE BELLE DONNE E, PURTROPPO, ANCHE LA DROGA. È STATA LA VERA STAR DEGLI ANNI SETTANTA, IL GRANDE AMICO DI BORG, MCENROE E CONNORS. SCOMPARSO IN MANIERA BEFFARDA

Eravamo in pieni Seventies, esplodevano il glam e la disco music, suonavano Gloria Gaynor e i Bee Jees. Un giovane designer italiano, Elio Fiorucci, se ne stava seduto su un marciapiede fuori dallo Studio 54, osservando le star che scendevano dalle limousine. Una Rolls Royce color oro e vaniglia, targata Vitas G accostò. Come ad un segnale convenuto, i buttafuori presero a far scendere un’allegra banda di personaggi: un paio di modelle, artisti ancora sconosciuti come Jean-Michel Basquiat, un paio di Rolling Stones, il vice governatore dello stato di New York. Per ultimo scese il guidatore, un ragazzo esile, la carnagione bianca, i capelli biondi che scendevano su un vestito immacolato, la camicia aperta a metà petto. Vitas Gerulaitis lanciò le chiavi al parcheggiatore con fare teatrale, quindi entrò avvinghiato alla supermodella Janet Jones. Il tempo di incrociare Keith Richards e un omino con i capelli color platino, scattava foto con una polaroid. Vitas lo guardò quasi a schermirsi: «Solo una ancora, please», lo pregò Andy Warhol. Vytautas Kevin Gerulaitis era nato povero da due immigrati lituani che si erano stabiliti a Brooklyn. Il padre lo instradò al gioco: era bravo ma poco potente e l’allenatore del liceo, la Molloy High School, fu lapidario: «Non penso arriverà mai da qualche parte». A soli sedici anni, Vitas era già nel novero dei primissimi under 18 dello stato, tanto da farsi notare da Harry Hopman, il leggendario allenatore australiano che aveva preso base alla Tennis Academy di Port Washington, dove c’erano anche Peter Rennert, Peter Fleming e, dopo qualche anno, un ragazzetto attaccabrighe, figlio di un avvocato irlandese del Queens, tale John McQualcosa. Sin da quegli anni, apparve chiaro che Vitas era la star: tutti lo cercavano, tutti volevano allenarsi con lui. Vuoi uscire stasera? Beh, il massimo sarebbe andare con Vitas. Il vecchio Hop, poco incline ad assecondare comportamenti del genere, lasciava fare perché Vitas seguiva passo dopo passo le sue istruzioni: se era un’ora di cesto ne faceva due, se erano cinque chilometri di corsa ne faceva otto. Il suo anno magico è stato il 1977: a Roma vinse in finale contro Tonino Zugarelli e a Wimbledon, in semifinale contro Bjorn Borg, diede vita a uno dei più grandi match della storia dei Championships. Sotto due set a uno, Vitas arrivò a match point nel quinto. Borg giocò un attacco interlocutorio sul suo rovescio: «Il mio slice era quasi infallibile – disse Gerulaitis -, il colpo però era facile e pensai di colpire in top spin, quindi cambiai di nuovo idea», e la palla volò fuori di un metro. Vitas perse 8-6 al quinto.

Affatto scoraggiato, completò l’anno vincendo il suo unico Slam a Melbourne, in finale contro John Lloyd. Cosi come la musica disco esplodeva in un’onda fragorosa, trascinando fuori dalle case milioni di aspiranti Tony Manero, il tennis, trainato da personaggi come Borg, Connors, McEnroe e Vilas iniziò ad entrare nell’immaginario dei giovani. Quel brat pack di giovanotti non aveva più niente degli ingessati signori in bianco. A Londra, la Borg-mania aveva raggiunto vette che non si vedevano dai tempi dei Beatles. Mac, modi da scaricatore di porto, spaccava racchette sul Centrale, Vilas scriveva poesie, Jimbo… beh, Jimbo era antipatico e cattivo: stop. Sembra curioso dirlo, ma del gruppo era Vitas il personaggio che teneva le fila: era l’amico e il confidente di tutti. I maligni però dicevano che indugiasse troppo nella bella vita (sarà peccato?), osservando le sue foto in una discoteca, avvolto solo di un accappatoio e circondato da playmates, tanto che qualche commentatore frettoloso disse che fu uno dei più grandi incompiuti nella storia del tennis. La realtà era diversa: dei quattro fuoriclasse che aveva davanti, Vitas aveva qualcosa di meno. Disponeva di un grande rovescio slice ma anche di un dritto ballerino. In pochi però erano capaci di leggere il match come lui, in un tempo in cui le racchette di legno lasciavano ancora il tempo di ragionare. A suo agio su tutte le superfici, Vitas non disponeva della risposta di Jimbo, dei top assassini di Borg o Vilas, del talento di Mac. Invero suona quasi un ossimoro, ma Gerulaitis fu sempre un grande lavoratore. Memore degli insegnamenti del vecchio Hop, Vitas non negava di fare tardi la sera, ma sosteneva di non bere né fumare, sorvolando allegramente sulle donne. «Posso fare le cinque, ma la mattina dopo sono abbastanza lucido per allenarmi duramente». Toccò il picco della carriera ancora giovane, nel 1978, con il numero tre, raggiunto dietro a Borg e Mac. Esauriti i Seventies, le grandi discoteche furono sostituite da club esclusivi assediati da un esercito di yuppies, con la cocaina che scorreva a fiumi e Vitas ne rimase preso in pieno. Appena ventottenne, sembrava finito. Si ritirò nel 1985, ammettendo che la droga lo aveva rovinato almeno un po’. Ma ora cosa poteva fare? Gli piaceva la musica, recitò in un paio di film, trovò il tempo di allenare Sampras per un solo torneo. Ritrovò il successo quasi per caso: alla ESPN gli chiesero di commentare qualche match e Vitas si trovò immediatamente a suo agio. Il destino subdolo si compì nel settembre del 1994. Dopo un’esibizione con Connors, dolorante alla schiena, accettò l’ospitalità in una dependance della villa di un amico, Martin Raybes. Si sdraiò sul letto per un pisolino e il gas di una stufa mal funzionante lo uccise in pochi minuti. Vitas che muore dormendo, un paradosso della vita. In un giorno tristissimo di settembre, Vitas venne seppellito nel cimitero di Saint Charles a Farmingdale. Jimbo, Bjorn e Mac portarono la bara.