L’INTERVISTA – Tanti risultati e nessuna notorietà: la dura realtà di Raul Ranzinger, tra i coach più capaci in circolazione. Oggi fa base a Sestri Levante, segue un gruppo di georgiane e ha tante storie da raccontare. 
Raul Ranzinger a Londra durante la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi.
Indossa la tuta della Georgia.

 
Di Riccardo Bisti – 9 marzo 2013

 
Dici “Raul” e viene in mente l’impressionante Re di Hokuto del cartone animato “Ken il Guerriero”. Nel tennis, qualche fanatico ricorderà Raul Ramirez, ma pochi penseranno a Raul Ranzinger. E' un peccato, oltre che un'ingiustizia. Pochi allenatori possono vantare la sua esperienza e i suoi risultati. Per sua (s)fortuna, ha allenato quasi soltanto stranieri: a parte Tathiana Garbin e Maria Paola Zavagli, è stato al fianco di Barbara Schett (oggi commentatrice su Eurosport), Patty Schnyder, Henrieta Nagyova, Anastasia Rodionova e – da 7 anni – della georgiana Margalita Chaknashvili. Ma la giocatrice che gli è rimasta nel cuore è la slovacca Janette Husarova. “L'ho presa quando aveva 26 anni, reduce da quattro operazioni al ginocchio, numero 200 WTA e senza una lira. Due anni dopo era n. 3 WTA in doppio e 30 in singolare”. Senza dimenticare soddisfazioni impressionanti come una vittoria in Fed Cup, una finale allo Us Open e una partecipazione al Masters WTA allo Staples Center di Los Angeles. Ranzinger vive una situazione paradossale: apprezzato nel circuito, ignorato dai media. Non ne fa un dramma, ma è un peccato: avrebbe decine di storie da raccontare, a partire da un'affascinante mix di razze: il padre è austriaco, lui è cresciuto in Brasile, ma è italianissimo.
 
L'ultima volta che ci siamo sentiti eri diventato capitano della Fed Cup brasiliana. Poi cosa è successo?
E’ successo che non mi hanno pagato! A parte questo, è stata un’esperienza negativa. Mancavano le giocatrici, bisognava partire dalla base. Adesso è venuta fuori la Pereira, poi c’è questa Beatriz Haddad che può diventare buona, la vidi quando aveva 11 anni. Ma non sono adatto a un ruolo istituzionale: se avessi preso le parti della federazione sarei durato molto di più, invece ho sempre preso le difese degli atleti: questa tattica non paga. Avevo ottenuto otto wild card per alcuni tornei in Italia, prime in assoluto in Europa per tenniste brasiliane…e due giorni prima della partenza mi hanno detto che non c’erano i soldi per il viaggio! E’ stato deludente, soprattutto dopo aver firmato due contratti. L'esperienza è durata sei mesi.
 
Dal Brasile sei finito…in Tigullio.
Episodi casuali mi hanno portato a Sestri Levante, dove risiedo tuttora. Con me c’è Margalita Chaknashvili, e si è creato un buon gruppo di giocatrici georgiane. Fanno base qui, al Tennis Club La Fattoria, anche Sofia Kvatsabaia (24 anni, n. 482 WTA) ed Ekaterine Gorgodze (21 anni, n. 526 WTA). Inoltre ho ripreso ad allenare gli uomini: quando iniziai la mia carriera da coach avevo seguito diversi B1 e Corrado Borroni. Sono stato il coach del team georgiano alle Olimpiadi di Londra, e lì si è creato un contatto interessante con Anna Tatishvili, numero 1 del paese e 61 WTA. Il progetto è valido, ma un paio di fattori lo hanno rallentato: in primis la presenza del padre, un tantino invadente, in secundis una sfortuna pazzesca. Se ti dicessi cosa è successo…
 
Siamo tutt’orecchi.
Abbiamo fatto il primo torneo insieme a Linz. La sera prima di giocare…ha avuto un collasso! Eravamo al ristorante ed è svenuta. Ambulanza, Pronto Soccorso, analisi…ci hanno detto che poteva esserci un problema al cuore. Il secondo episodio lo abbiamo vissuto quest’anno. Abbiamo provato le qualificazioni a Parigi, dove ha perso dalla Camerin. Dopo il torneo siamo venuti direttamente a Sestri Levante….e al primo allenamento si è spaccata la caviglia! Adesso è ferma. Se aggiungiamo che anche la Kvatsabaia si è rotta il ginocchio…il quadro è completo. Tuttavia sono ottimista, la Chaknashvili è diventata capitana-giocatrice del team di Fed Cup. Nel suo paese ha un nome importante, stiamo pensando di creare un progetto per sviluppare il tennis in Georgia.
 
E la Tatishvili?
Stiamo valutando se andare avanti. Con lei abbiamo un’intesa eccezionale e sono convinto che abbia le potenzialità per entrare tra le prime 20, anche qualcosa di più, ricalcando le carriere di Pennetta ed Errani. Sul campo ci intendiamo alla perfezione, gli allenamenti sono ottimi…ma ci sono pressioni esterne che creano un po’ di difficoltà. Vediamo.
 
Queste ragazze come fanno a sostenersi economicamente?
Sono momenti duri, c’è chi se la cava meglio, ma in generale è difficile. Dentro il Tennis Club abbiamo un’ottima foresteria che garantisce un buonissimo servizio a un prezzo irrisorio. La base è a Sestri Levante, poi ce la giostriamo in base alle esigenze. A me danno un fisso mensile, poi c’è un accordo: al raggiungimento di un determinato ranking, scatta anche una percentuale sui prize money. E' partita una sponsorizzazione della federtennis georgiana, ma il budget è quello che è. Infatti capita che trascorrano qualche settimana a casa proprio per risparmiare. Le trasferte? Cerchiamo sempre di viaggiare in gruppo, in modo che le spese siano più tollerabili.
 
Non hai ruoli istituzionali nel tennis italiano. Da esterno, come lo vedi?
Nel femminile, i risultati attuali sono sopra il formidabile. Meglio di così è impossibile. Nel maschile siamo a un livello medio-alto: Seppi numero 20 ATP, Fognini è sempre lì, Bolelli si sta riprendendo. Tuttavia, soprattutto in campo femminile, mi pare che dietro non ci sia un granchè. Sinceramente non so da chi e da cosa dipenda. Personalmente ho un buonissimo rapporto sia con Corrado Barazzutti che con Sergio Palmieri, ma non so esattamente come sia gestito il settore tecnico. Certo, il team attuale di Fed Cup era “già pronto”. Vediamo che succederà in futuro.
 
Non sei un grande sostenitore delle Accademie. Come mai?
La gente vede le Accademie come un posto dove si costruiscono i campioni. Ma alla fine chi hanno prodotto? Prendi l’Accademia Sanchez-Casal: mi viene in mente soltanto Svetlana Kuznetsova. Se ci sono troppi giocatori diventa una bolgia, un business, e si perde qualità. Se io avessi 50 tennisti, non so come farei. Preferisco dei posti specializzati, con gruppi ristretti per fare qualità. Un posto da cui ho sempre preso esempio era un club in Spagna, da cui sono emerse Llagostera Vives, Martinez Sanchez e Parra Santonja. C’erano otto giocatrici per tre allenatori. Secondo me, un sistema del genere può funzionare. In un’Accademia perdi automaticamente qualità.
 
Hai ottenuto buoni risultati, spesso ottimi, ma non ti conosce quasi nessuno. Come mai? La cosa ti dà fastidio?
Non mi dà fastidio, ma con il tempo mi sono reso conto che la notorietà non dipende dai risultati. In base a quelli, probabilmente dovrei avere un riconoscimento. Evidentemente, per essere famoso devi fare qualcos’altro. Ma non so cosa. Non ho mai chiesto a un manager di allenare una giocatrice, non ho mai chiesto una maglietta in omaggio, non ho mai cercato di “tenermi buono” qualcuno. Tuttavia, mi pare di essere rispettato da tutti. Alla fine, la vera soddisfazione arriva dai risultati. Se devo essere sincero, il sistema di comunicazione del tennis non mi fa impazzire. Si parla soltanto dei campioni. Anni fa, al torneo di Parigi, il programma ufficiale si occupava soltanto di Serena Williams, in tutte le salse. Le “mie” Schett-Schnyder vinsero il doppio in finale su Bartoli / Cohen-Aloro, all’epoca giovanissime. Il giorno dopo non c’era neanche un trafiletto, eppure erano due francesi promettenti! Purtroppo il comportamento dei vertici della comunicazione WTA è così…baci e abbracci alle più forti, scarsa considerazione per tutte le altre. Gli italiani? 10 anni fa, alla Final Four di Fed Cup, c'erano i rappresentanti federali e alcuni media. Nessuno venne a parlarmi.
 
Come dovrebbe essere una corretta comunicazione?
Mi piacerebbe leggere storie, racconti di vita. C’è troppa politica, a volte mi sembra quasi che le interviste abbiano una valenza strategica. Io credo che il tennis abbia splendide storie da raccontare. Mi viene in mente Anna Smashnova: 3 anni di militare in Israele, poi è arrivata per due anni al Masters grazie a un buon rovescio e a due gambe inesauribili. In quel periodo era seguita dal mio amico Claudio Pistolesi, uno che da coach non sbaglia un colpo. La stessa Husarova sembrava finita, poi ha fatto grandi cose…e la Garbin sembrava sparita dopo l’intervento alla tiroide, invece è tornata più forte di prima. Credo che certe storie possano avere una valenza educativa, motivare un giovane in difficoltà. Ma se non le scrive nessuno…
 
Hai detto di non aver mai chiesto una giocatrice a un manager. Ci sono allenatori che lo fanno?
Funziona più o meno così: se un coach conosce un manager, gli sta sempre dietro, gli parla, gli offre il caffè…insomma, fa attività da PR. Se poi resta senza giocatrici, può contare sul suo appoggio con più facilità. Il fatto è che questo appoggio può costare una percentuale. Faccio un esempio: se una buona tennista, magari con uno sponsor dietro, chiede un coach al suo agente, può essere “piazzata”. Ma il manager trattiene una percentuale sullo stipendio del coach. Nel giro ci sono sempre gli stessi allenatori. Ci avete fatto caso? E’ una cosa legittima, per carità, ma io non ci sono mai voluto entrare. Conosco tanti manager, ma se dovessero farmi una proposta del genere non so come reagirei. E poi troppi genitori e familiari sono penetrati nel circuito. Adesso c’è una nuova associazione, la PTCA, che cerca di mettere ordine su chi ha il diritto di avere il badge da allenatore e chi no.
 
Com’è l’ambiente nel circuito WTA?
Poco professionale, soprattutto a livello medio-basso. Ad alto livello, la Sharapova si è potuta permettere di allontanare il padre e crearsi uno staff tutto suo, iper-professionale. Purtroppo, l’ambiente pullula di padri, madri, fidanzati e familiari che sono emotivamente coinvolti e si sentono in diritto di dire la loro. Il problema dei coach è l'assenza di tutela. Devono gestire mille difficoltà per un guadagno mediocre. Un conto è avere un contratto da 200.000 euro annui, che ti fa ingoiare qualsiasi rospo. Un altro è allenare giocatrici che guadagnano pochissimo e hanno spese importanti. Di questi tempi, allenare una numero 100-150 WTA può essere quasi un danno sul piano economico.
 
Ma allora tu come fai, allenando giocatrici di ranking ancora più basso?
Nel mio caso è diverso. Le mie giocatrici pagano un fisso mensile: pagando cifre “giuste” si crea un buon gruppo e hanno un buon servizio, ma non esclusivo. La numero 50 WTA, al contrario, ha bisogno di assistenza completa, di essere accompagnata ai tornei. La Tatishvili si era approcciata a me proprio con queste intenzioni, ma le ho detto che le avrei potuto dedicare un tot numero di settimane. Per i viaggi ai tornei, ognuna ha un programma personalizzato. Cerchiamo di viaggiare in gruppo, ma per le giocatrici è importante imparare a gestirsi da sole.
 
A 44 anni, quali sogni e obiettivi ti sei posto?
Credo di aver già esaudito qualsiasi sogno. Quando sei all’aeroporto, apri una borsa e trovi un trofeo della Fed Cup, uno dello Us Open e altri di grandi tornei, davvero non puoi lamentarti. Ho avuto la bravura e la fortuna di trovare giocatrici che hanno avuto fiducia in me. Poi, è ovvio, sono un competitivo e sono convinto di poter condurre un atleta al suo limite. Mi sento più a mio agio quando frequento un grande torneo piuttosto che quando sono alla base…dove mi sento un leone in gabbia. Mi piacerebbe prendere un/a giovane e condurlo ad alti livelli, ma è un mondo difficile, ingestibile. Le generazioni passate erano più abituate a soffrire, sono cresciute quando i tornei non avevano l’ospitalità…in altre parole, sono maturate più in fretta. Oggi è più difficile.
 
Le tue ragazze dove possono arrivare?
Non lo so, negli anni ho visto di tutto. Chi avrebbe mai immaginato di vedere la Husarova al n. 3 in doppio e al 30 in singolare? Tutto è possibile. Di certo, spero di portarle al proprio limite.
 
Se qualche giocatore bussasse alla tua porta, lo accoglieresti a braccia aperte?
Non tutti. Credo molto nel gruppo, nell’armonia di squadra. E’ il gruppo stesso a fare selezione: per intenderci, se arrivasse qualcuno dovremmo valutare la sua possibilità di integrarsi. Se arrivasse un giocatore ricco ma dal carattere difficile, probabilmente non l’accetterei. Ho creato una situazione in cui lo spirito di gruppo ha un’importanza enorme. Oltre alle georgiane, seguo due giovani italiani: il sardo Antonio Zucca, un ragazzo che gioca i futures e ha buone potenzialità, e Filippo Ghio. Quest’ultimo è il figlio dei gestori del club, lo sto crescendo anche a livello di coaching, perchè un domani potrebbe darmi una mano. Comunque si tratta di un ottimo giocatore, ho fiducia in lui. Non faccio tanta pubblicità anche perchè sono le stesse giocatrici a fare pubblicità per me.