da Dunblane (Scozia), Gabriele Riva
foto Alessandro Saini, Getty Images
editing di Max Grassi
Lontano dal fascino dei Borders, spostato dalla via del Whisky, troppo in basso per sentire l’eco di Lochness. A Dunblane non c’è niente. Te ne accorgi per strada: solo cinque miglia a Sud, a Stirling, i marciapiedi brulicano di turisti e c’è la coda per entrare nei parcheggi. Le digitali accecano la Scozia, i k-way vanno più del Moncler negli Anni ’80 e dei giapponesi si perde il conto. Qui no: solo volti celtici, pelli chiare e bulbi che variano dal rossiccio al rossastro, passando per il rosso pieno. Niente parapioggia, al limite un cappellino da baseball a nascondere gli zigomi spigolosi e il sorriso a metà.
Come quelli di una faccia in vetrina, sempre la stessa su tutti i negozi del centro (beh, centro, si fa per dire…): siamo nel cuore della Murray Mania, e l’immagine appesa ovunque è proprio quella di Andy. Due giorni prima era in lacrime, sull’erba. Ora è sulle prime pagine dei giornali e appiccicato a fianco di un abito da sposa, di una scatola di aspirine e perfino all’insegna di una clinica veterinaria. Insomma, a Dunblane – si pronuncia Danblèin, con l’accento sulla e, non all’italiana sulla prima sillaba – ci vieni se hai un motivo.
E quel motivo è Murray. C’è una cattedrale, nemmeno brutta, ma non abbastanza bella da meritarsi più di due righe sulla guida turistica. “Cosa ci andate a fare laggiù?”, è più o meno l’espressione che si stampa negli occhi di quelli cui chiedi indicazioni. E aggiungono: “Ma la cattedrale non è così bella, fossi in voi proseguirei dritto per Doune, o Perth”. Non lo capiscono… ma se nel discorso inciampi in un “tennis”, allora tutto si fa più chiaro e smettono di guardarti come uno che mangia le cozze con lo yogurt.
A piedi sull’asfalto granuloso e lavato dalla pioggia battente ti accorgi che non è solo il giornale locale, lo Stirling Observer, che per 95 pence al giorno finisce nelle mani della gente, a definire Andy Murray un eroe locale. Ci pensa l’atmosfera.
A 56 km da Edimburgo e una cinquantina da Glasgow, Dunblane è il vertice superiore di un immaginario triangolo costruito sulla cartina unendo le tre città. Per arrivarci bisogna prendere la A90, direzione Perth, finché non ci si sbatte contro. Ma la Murray Mania colpisce prima: già all’aeroporto, dove un vecchio scruta a lungo la borsa cui manca solo la forma del portaracchette, anche un ubriaco capirebbe che sa di tennis.
“Hey guys, Wimbledon is over. The Scott lost and the austrian (?!) guy won”. In pratica, lo scozzese ha perso e l’austriaco (ri-?!) ha vinto. Fiato al malto e tasso alcolemico scoraggerebbero persino il più puntiglioso tra gli gnè-gnè dal far notare che… sarebbe svizzero, non austriaco. Tant’è, e aggiunge: “Non c’è più niente da fare, abbiamo perso”.
La città conta all’incirca 8.000 anime, una serie infinita di saliscendi e quattro campi da tennis. Tutti verdi, ma sintetici e all’aperto. Diluvia, ma chi c’è dentro non sembra preoccuparsene, come se l’acqua non bagnasse. “Questo è sempre stato un problema per il tennis scozzese – sostiene Murray – il tempo da noi è sempre brutto e ci sono poche strutture al coperto. Ce ne saranno 4 o 5 in tutta la Scozia. E quelle che ci sono sono costosissime”.
Quelli in balia degli scrosci sono i campi del Dunblane Sports Club, dove un’ora di tennis, per i visitatori, costa 2 sterline e mezzo. Ridotta a una sola per chi ha meno di 17 anni. Sono gli stessi su cui ha giocato il piccolo Andy dall’età di 3 anni, con mamma Judy, oggi capitana di Fed Cup e da sempre maestra di tennis. Qui ci è cresciuto, prima di andarsene in giro per il mondo quando aveva 12 anni. “A Dunblane non si può dire che ci sia molto, lo dico da uno che ama le grandi città come Miami, Londra e New York. Ho cominciato a viaggiare molto da piccolino, poi a 15 anni mi sono trasferito a Barcellona. Direi che il movimento è un po’ diverso lì”.
Un viaggio che lo ha portato a diventare un Fab 4, uno dei quattro lassù in cima. In Spagna ha lavorato all’Accademia Sanchez-Casal, lì ha appreso i sacri dogmi degli appoggi che Pato Alvarez, coach colombiano, tramanda come fossero una disciplina orientale. Due anni e poi via nel circuito dei grandi.
I primi passi, come si conviene, a mezz’ora da casa. Glasgow è il primo futures che si mette in bacheca, la settimana dopo va in semifinale a Edimburgo. Poi gli Us Open Juniores (2004), il timbro di nuovo Henman sui documenti, e il bollo di speranza della Regina sul passaporto. Oggi è sempre il quarto uomo, non solo per il buon senso del tennis ma anche per i computer e le loro classifiche. Nel 2009 è stato n.2, in agosto.
Un CV che lo ha spedito nella lista con i più grandi della sua era (e non solo…): Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic. Secondo alcuni il suo inserimento in coda ai tre è un po’ generoso e figlio di un mercato anglofono stufo di sentir suoni spagnoli, tedeschizzanti o est-europei. Una forzatura per permettere a un madre lingua di stare con i migliori, pur non avendone tutti i titoli. E quei titoli che mancano non sono puramente proverbiali: sono quelli di uno Slam.
Quattro tentativi, quattro volte in bianco. Un poker in negativo. La prima volta a New York, nel 2008… Federer chiuse la porta. Così come a Melbourne 2010 e all’ultima edizione dei Championships. L’unica chance senza il più grande di sempre tra le scatole si presentò sempre in Australia, ma quello era il principio dell’“Anno Djokovici” 2011. Ma è esercizio umano comune quello di sottolineare le più grandi amarezze di una carriera piuttosto che esaltarne gli apici. 22 titoli Atp nel complesso, di cui ben 8 Masters 1000 e 3 Atp 500, ben 11 i “dueecinquanta”.
Murray diventa un’icona di Dunblane. Eppure, nonostante le dimensioni del paese, i traguardi tagliati e le promesse mantenute e da mantenere, non è stato il figlio di Will e Judy, i cui stage di tennis a Stirling sono pubblicizzati sulle stesse vetrine che espongono le foto di Andy, a mettere la città sulle mappe. Fu Thomas Hamilton. La mattina del 13 marzo 1996 entrò armato fino ai denti nella scuola elementare di Dunblane e scaricò la sua follia insieme ai suoi caricatori su 16 bambini e un’insegnante, riservando per sé l’ultimo proiettile. Andy era lì, sotto una scrivania con il fratello Jamie, cercando di non incrociare la strada di quel 43enne con cui era anche salito in macchina diverse volte.
Come racconterà: “Quando mamma non poteva venirci a prendere a scuola, era lui a darci uno strappo a casa”. Survivors, dicono da queste parti: sopravvissuti. “Capii realmente l’enormità di ciò che era successo quel giorno solo tre o quattro anni dopo – dirà quando da diciassettenne vincerà gli Us Open juniores – di quel giorno in realtà ricordo poco”. Tra i giornalisti la cosa è nota: Andy non ama tornare sulla questione (comprensibilmente) e alle domande che gioco-forza si è trovato a dover dar risposta ha sempre ribattuto parole spicce, con la voce di uno che vuole cambiare argomento. La città allo stesso modo. La scuola è lontana dal centro, dai negozi, dai pub e dalla vita. Non è casuale.
È stato costruito tutto dopo, nel 2004, con una cicatrice di quasi dieci anni. I fondi per i lavori arrivarono proprio dai finanziamenti post-strage, per ripartire. “Quel posto”, come lo chiamano alcuni, è sulla strada per Doune, ci si arriva tramite una stradina che svolta verso sinistra. L’unico cartello “Dunblane Primary School” è ad altezza ginocchia, in verde, e si nota appena. Non si può nemmeno dire sia un’indicazione stradale. Niente targhe o monumenti, in città; solo una colonna commemorativa all’interno della Cattedrale.
La gente nei modi impersona le parole di Andy che in un’intervista da teenager disse: “Voglio che non ci si ricordi di Dunblane solo per la morte di 16 bambini innocenti, e spero di riuscire a contribuire con il tennis affinché questo sia possibile”. Da lì in poi, non di rado, i moderatori delle sue prime conferenze stampa erano istruiti per stoppare sul nascere qualsiasi tentativo di entrare in argomento con frasi tipo quella echeggiata nella sala stampa di Wimbledon 2005: “Non ci metteremo ora a parlare di Dunblane. Restiamo al tennis, next question please…”.
La verità è che oggi fotografi e reporter non vanno più a Dunblane in cerca di madri affrante da sbattere in prima pagina a caccia del premio Sciacallo dell’anno. Ci vanno per fotografare i pub, in attesa di un’esultanza, un brindisi al gusto di Slam. Ci sono venuti quattro volte, per tutte le quattro finali.
“Le partite importanti di Murray le guardiamo al bar dei due hotel della città. Right there, at the end of the town (alla fine del paese, comprensibile a fatica perché pronunciato dai natii: ‘toon’, con una vocale talmente chiusa da risultare non vera). I luoghi sono il Dunblane Hotel e il Village Inn, uno di fronte all’altro. Li separa una strada che porta al ponte sull’Allan Water, il fiume che squarcia i saliscendi del paese. Fuori una lavagna, ‘Fragole con crema gratis durante le partite di Murray’.
Da dietro il bancone capiscono al volo dalla penna e dal taccuino che non stanno per servirci una pinta ma che invece del braccio per spillare una scura corposa dovranno far andare la bocca. “Ci abbiamo sperato, pensavamo fosse la volta buona. Ma, hey, ora ci sono le Olimpiadi, no? Vincerà quelle, ne sono sicuro”. Il tono è lo stesso un po’ per tutti, lacrime e tristezza sono già passate, affogate dalla speranza di un Oro e dai bicchieri di Tennents, prodotta a mezz’ora di macchina nei birrifici di Glasgow.
“Piangerà di nuovo in futuro – dice Alan mentre scarica le cassette della frutta dal camioncino – ma di gioia questa volta, e lo farà molto presto. Il problema è che ha affrontato il più forte di tutti e non c’era nulla di meglio che si potesse fare”. Da una vetrina spunta un cartello, “Didn’t he do well!”, “Quanto è stato bravo!”. In strada chi parla di sport ha solo tre argomenti su cui confrontarsi. Primo il tennis, con Murray, Wimbledon e l’oro olimpico; secondo il calcio, con il fallimento non ancora chiarito dei Rangers, una delle squadre più gloriose di Glasgow e della Scozia intera; poi il golf, con lo Scottish Open in pista sui campi di Inverness, qualche miglio più a nord.
Sui Rangers una parentesi va aperta: è la squadra della comunità protestante, maglia bianca e blu, rivali storici dei Celtics, bianchi e verdi e soprattutto cattolici. Bene, è proprio nei Rangers che il piccolo Andrew tentò un provino quando, con due titoli dell’Orange Bowl già sulla mensola, si stufò del tennis e delle cure spasmodiche di mamma-coach Judy, che gli mise la racchetta in mano a soli 3 anni.
Provò così a emulare la carriera del nonno materno Roy, che fece del calcio una professione. “Andy ci ha resi orgogliosi – per fortuna che si è riappassionato in fretta al tennis, vien da dire – ora può davvero tenere la testa alta. Avrà anche perso ma questa partita lo renderà un giocatore migliore. Tornerà a Wimbledon l’anno prossimo, e lo vincerà”, parola di Dianna, che passeggia verso la stazione con la figlia per mano.
Ora Andy vive a Londra, dove ha la residenza e dove ha superato Tim Henman, che in finale nel Tempio non ci è mai arrivato. Abita proprio nella città che lo ha rivisto protagonista sotto il fuoco di Olimpia, una metropoli europea, roba da 8 milioni di abitanti. Gli 8 mila di Dunblane non riempirebbero nemmeno mezzo stadio di una qualsiasi delle squadre della City, eppure il cuore della Murray Mania pulsa proprio qui.
Sulle strade a senso unico del centro, sul ponte di metallo che conduce al di là dei binari e che sembra ancor più grigio per colpa del cielo, sulle vetrine che espongono la bandiera scozzese accanto alla sua foto, sulle scritte “Our local hero”, il nostro eroe.
Se Dunblane non è esattamente il paese più turistico del mondo, resta il fatto che la Scozia merita di essere vista. E un appassionato di tennis, in visita a Edimburgo o in viaggio per il Nord tra baie e scorci da cartolina, può comodamente mettere nell’itinerario una scappata al paesino natale di Murray. Muniti di ombrello e impermeabile, la regione centrale, dove si trova Dunblane, ha il suo perché. Intanto proprio nel paese di Andy si erge una cattedrale del 1200.
Non di grandi dimensioni, se paragonata a quella di Glasgow, ma piena di dettagli e opere del cristianesimo e del protestantesimo da fotografare. Certo, per mettere in programma la visita a Casa Murray, magari con la capatina al centro sportivo, serve un po’ più di una cattedrale, per giustificare la benzina o il biglietto del treno. 10 km a sud c’è Stirling, cittadina molto conosciuta e – questa sì – decisamente turistica. Il castello, vera e propria fortezza inespugnabile costruita su una collina nel XV secolo, vale il viaggio.
Non solo: sempre a Stirling non è difficile notare il National Wallace Monument, una torre di 67 metri di arenaria innalzata in memoria di Sir William Wallace, storico baluardo della libertà scozzese dal “cuore coraggioso” portato sul grande schermo da Mel Gibson in Braveheart. Infine, 8 km a ovest di Dunblane, un altro castello medievale nel villaggio di Doune. La struttura completamente intatta e la location immersa nel verde hanno fatto sì che diventasse il set ideale per diversi film e serie tv ambientati nel Medioevo.
E da qui, dopo la deviazione tennistica, il viaggio può ripartire, verso le grandi città (Glasgow e Edimburgo sono a meno di mezz’ora di macchina) se siete diretti a Sud, oppure verso i paesaggi del Nord e delle isole.
* Articolo apparso sul numero di Settembre 2012 de "Il Tennis Italiano"