Nel giorno in cui veniva inaugurato l'Arthur Ashe Stadium, Venus Williams aveva un mucchio di perline in testa. Blu, bianche e rosse, come i colori della bandiera degli Stati Uniti. Era il 25 agosto 1997, settantesimo compleanno di Althea Gibson, icona del tennis "nero". Nella seconda partita giocata sul nuovo centrale, Venus batté Larisa Neiland. Dopo la partita, in conferenza stampa, espresse concetti che sarebbero validi ancora oggi. Parlò della capacità di vincere una partita di tre set, e di quanto fosse importante andare incontro alla palla e colpire in anticipo. Raccontò anche altro, come le difficoltà con l'algebra, o di quando fece una foto con Arthur Ashe quando aveva 12 anni. “Mamma mia, quanto era alto!”. Le ambizioni erano grandi, ma non pensava di vincere il torneo. Ci arrivò vicina, ma fu sconfitta in finale da Martina Hingis. Erano gli albori di una grande rivalità, ancora favorevole alla svizzera, ma che presto avrebbe cambiato direzione. Venus raggiunse la finale all prima partecipazione: l'ultima a riuscirci era stata Pam Shriver nel 1978. Ma fece anche qualcosa di inedito: nessuna giocatrice, prima di lei, era arrivata in finale senza essere testa di serie. Da allora sono passati 20 anni e Venus, giocatrice più anziana in tabellone, si presenta più fiduciosa che mai. D'altra parte, quest'anno ha fatto grandi cose: finale all'Australian Open, finale a Wimbledon. C'è una somiglianza rispetto al torneo di vent'anni fa: non c' Serena Williams, sia pure per ragioni diverse. E non ci sono reduci del tabellone di allora. Bazzica ancora la Hingis, ma soltanto in doppio. Venus si presenta da numero 9 WTA e, in assenza della sorella, vanta il miglior palmares tra le pretendenti al titolo. Delle otto che le stanno davanti, in cinque non hanno mai vinto uno Slam. Le altre tre, ne hanno intascati sei (due Muguruza, due Kerber, due Kuznetsova). In tutto, Venus ne ha vinti sette. Due a Flushing Meadows, anche se l'ultimo è un po' datato.
NÈ RASSEGNAZIONE, NÈ INVIDIA
Per quanto il tennis americano in gonnella sia in crescita e abbia un paio di cartucce interessanti (Keys e Stephens), tanti riflettori saranno puntati su di lei, la “Regina dell'Universo”, come fu chiamata da Wycleaf Jean nella canzone a lei dedicata. Sono cambiate molte cose da quando una piccola Venus dominava i tornei della California del Sud e della Florida (a livello Under 12 raccolse un bilancio di 63 vittorie e 0 sconfitte). Nella sua lunga parabola, Venus (insieme a Serena) ha diffuso il tennis presso la comunità afroamericana, ha creato una società di design, ne ha realizzata una di abbigliamento (EleVen), si è aggiudicata quattro medaglie d'oro olimpiche e ha frantumato l'idea che i baby campioni si possano formare soltanto in un'accademia. Anche le Williams transitarono da Bollettieri, ma il loro successo è frutto della mente un po' folle di papà Richards. Venus ha saputo mischiare potenza, velocità, agilità e grazia. E ha vissuto con straordinaria classe una situazione molto particolare: è una delle più forti giocatrici di sempre, ma non la più forte in famiglia. Avrebbe avuto mille ragioni per arrendersi, specie quando ha scoperto di avere la Sindrome di Sjogren, o quando Serena ha creato un gap incolmabile (almeno in termini di palmares). Invece sta facendo cose incredibili, se relazionate all'età. È l'ottava giocatrice più titolata dell'Era Open, ma chissà quanto avrebbe vinto se per sette volte non si fosse incagliata in finale contro la sorella. Pazienza, non le hanno mai presentato l'invidia. Stavolta gli occhi saranno tutti su di lei, su quell'ottavo Slam da vincere a otto anni dall'ultima volta. Esordirà contro la qualificata slovacca Viktoria Kuzmova, poi – in linea teorica – avrebbe Wozniacki negli ottavi e Muguruza nei quarti. Ma Venus, quando sta bene, può permettersi di non guardare dall'altra parte della rete. New York l'aspetta.