La solitudine, nel tennis, sport individuale per eccellenza, non si vive solo in campo. Anzi…

foto Ray Giubilo

Wimbledon, interno notte. Sono le dieci di sera al ristorante (sotterraneo) della stampa, in giro non c’è quasi nessuno, la cucina ha già chiuso. Un giovane signore in giacca panna e cravatta scura seduto ad un tavolinetto tondo sta mangiando da solo. Un taglio di capelli ordinato, un volto che improvvisamente dice qualcosa. «Ehi, ma quello è John Isner!». Long John si è ritirato l’anno scorso agli Us Open, qui debutta come commentatore per la Espn. Il campo dove nel 2010 giocò con Nicolas Mahut il match più lungo della storia, è esattamente sopra di lui. «E’ uno abituato a fare tardi», proviamo a ironizzare.

Trovarsi in compagnia di se stesso, in un ristorante quasi chiuso, di sicuro non gli fa paura. Sul campo sei sempre da solo. Sia che tu debba restarci per undici ore per vincere un match, sia che tu debba decidere – come è capitato stamattina ad Andy Murray – se giocare ancora un match, con la schiena a pezzi, sapendo che questo, vada come vada, sarà il tuo ultimo Wimbledon. Andy ne ha parlato con il suo team, ieri sera anche in famiglia. Ma al momento di dire no, non ce la faccio, il mio sogno di un ultimo saluto a Wimbledon da singolarista (in doppio probabilmente ci sarà) finisce qui, si è ritrovato solo con se stesso. Come sempre.