LA STORIA – Alexandra Stevenson non vuole essere ricordata per la semifinale a Wimbledon di 15 anni fa, o per essere figlia di Julius Erving. Vuole aggiungere il tassello più difficile. A quasi 34 anni, numero 496 WTA, l’impresa sembra disperata. “Più me lo dicono e più lavoro duramente”.
Di Riccardo Bisti – 10 luglio 2014
Quando tira la somme, Alexandra Stevenson trova sempre qualcosa che non torna. Sul finire degli anni 90 faceva parte di un trio di ragazzine terribili, le più credibili alternative alle sorelle Williams. Le altre due erano bionde e di etnia balcanica: Jelena Dokic e Mirjana Lucic. Lei era l’unica americana, preda ideale per un mercato affamato di tennis dopo l'avvento delle sorelle Williams. Dopo la clamorosa semifinale a Wimbledon, colta nel 1999 da qualificata (come un certo John McEnroe nel 1977), il signor Phil Knight planò a Londra per farle firmare un contratto triennale. Se il fondatore e proprietario della Nike si mosse in prima persona, vuol dire che ci credeva davvero. E pensare che, tre settimane prima, Alexandra era rimasta senza scarpe a Roehampton, dove si svolgevano le qualificazioni. Gliele prestò il suo coach di allora, ma per calzarle in modo dignitoso dovette indossare tre paia di calze. L’ostacolo non le impedì di battere proprio la Dokic nei quarti prima di cedere a Lindsay Davenport. “Ricordo ogni dettaglio di quell’avventura – racconta oggi, 33enne – ogni volta che si gioca Wimbledon e io non ci sono, beh, è sconvolgente. E’ il massimo per ogni giocatore”. Ricorda tutto, persino cosa ordinò Steffi Graf al ristorante (anatra alla pechinese) e il giorno in cui potè allenarsi con Venus Williams. Da allora sono passati 15 anni e Alexandra non si è ancora ritirata. Anzi, rilancia. Vuole tornare a Wimbledon e respirare quell’aria. Ce l’hanno fatta sia la Dokic che la Lucic dopo aver vissuto un inferno familiare, mentre lei ha vissuto l’esatto opposto: nel 2008 ha incontrato per la prima volta il padre, il famoso Julius Erving, mito del basket NBA negli anni 70-80 con la casacca dei Philadelphia 76ers. Alexandra nacque da una relazione di Erving con la giornalista Samantha Stevenson, unica persona sempre presente nella sua vita. Talmente presente che le ha dato il cognome. Nonostante una vicenda familiare delicata ma priva di violenze, Alexandra non ha saputo tornare ai livelli di un tempo. La sua ultima apparizione tra le top-200 WTA risale al 2004. Pensare di tornare a livelli anche solo dignitosi è un puro esercizio di fede.
MALEDETTA SPALLA
“Non ho avuto la possibilità di competere come avrei meritato – irrompe – la mia età non significa niente. Il tennis è uno sport duro, non perdona. Ma ho ancora il sogno di giocare uno Slam. Anzi, lo voglio vincere. Penso di averne le capacità”. Boom. Gli alibi non le mancano: su tutti, un grave infortunio alla spalla destra emerso nel 2003 (proprio a Wimbledon, guarda un po’…) che l’ha costretta a un delicato intervento chirurgico nel 2004, causa di uno stop di 18 mesi. Da allora, sia pure tra alti e bassi, non è più stata la stessa. E i tempi di gloria erano sempre più lontani. Se chiedete all’appassionato superficiale, forse anche a quello medio, probabilmente vi dirà che Alexandra si è ritirata. E invece il feticista delle statistiche sa bene che non molla. Quest’anno ha giocato sette tornei, con risultati modesti negli ITF e un solo tentativo WTA, alle qualificazioni di Monterrey, dove ha perso al secondo turno dalla canadese Heidi El Tabakh. Un po’ poco per sperare di vincere uno Slam. L’unica volta che c’è andata vicino risale al 1999 e a quell’incredibile cavalcata londinese. Aspettò di raggiungere la seconda settimana per rivelare il mondo di essere la figlia di Julius Erving. I tabloid si scatenarono, lei riuscì a gestirla bene fino al 2002, quando si accomodò al numero 18 WTA. Ma i dolori alla spalla l’hanno martoriata. “La mia carriera nel tour è durata solo cinque anni. E’ stata la spalla a portarmi fuori dal circuito”. Un dolore reale, che l’ha portata alla cifra record di 63 ritiri durante una partita, quasi il 10% del totale dei match giocati. Eppure ci crede ancora e non molla. Racconta che mamma Samantha ha messo a punto un sistema di riabilitazione per la spalla, simile a quello di un lanciatore di baseball. La madre è tutto per lei: le fa sia da coach che da manager. “Senza di lei non avrei potuto giocare a tennis – racconta – quando tutti sono scomparsi, non avevo più amici e nessuno che volesse starmi vicino, lei mi ha tenuto a galla”.
LA SCRITTURA E IL TASSELLO MANCANTE
C’è un solo un posto dove si sente veramente a suo agio: Wimbledon. C’è tornata l’ultima volta nel 2008, per giocare le qualificazioni. “Lì non mi trattano come se fossi spazzatura. A volte mi sembra di essere negli Stati Uniti. Ho scritto un po’ di storia e loro mi rispettano per questo”. Al contrario, non ha questa sensazione nel paese natale. Ha chiesto assistenza alla USTA, almeno un allenatore, ma gliel’hanno negato. “Quando gioco negli Stati Uniti mi sembra di non avere un paese – dice Alexandra – nessuno vuole starmi accanto, mi trattano come una lebbrosa. Mi sento come se la gente mi tratti come uno scarto, un rifiuto”. Ad aprile ha finalmente trovato un posto dove allenarsi. Tra ex semifinalisti Slam, evidentemente, ci si intende. E così l’hanno accolta nei sobborghi di Atlanta presso la Ginepri Performance Tennis Academy. Le dà una mano Jason Parker, lo stesso che aveva forgiato il talento di Jamie Hampton, altra giocatrice perseguitata dagli infortuni. “Non avrei mai pensato di allenarmi in Georgia, ma finalmente la spalla è al 100%”. Alexandra non ama girarsi i pollici: nel 2007 ha conseguito una laurea (online) in sociologia e ha le idee abbastanza chiare per il futuro: fare l’attrice, o magari seguire le orme della madre e infilarsi nel giornalismo. In fondo, vanta già un articolo: nel 2001, tra le migliaia di vittime per l’attentato alle Torri Gemelle, perse il caro amico Manny Del Valle Jr, un pompiere che nel tempo libero faceva l’autista allo Us Open (“Guidava la macchina numero 61", come ama ricordare la Stevenson). L’anno dopo, il New York Times le fece scrivere un articolo in ricordo del suo amico e indossò in tutti gli Slam il logo della sua piccola compagnia sul cappellino. Di sicuro la passione per la scrittura è sincera: sta lavorando a un’autobiografia, ma spera di tardarne la pubblicazione il più possibile. Vuole avere qualcosa in più da raccontare, non solo quelle due settimane londinesi o l’incontro con papà Julius del 2008, documentato in maniera magistrale in un articolo-capolavoro (e anche un po’ strappalacrime) di Tom Friend. No, Alexandra vuole di più. Però adotta la politica dei piccoli passi: l’obiettivo stagionale è chiudere tra le top-200 in modo da poter giocare le qualificazioni dell’Australian Open. “Sento che non è finita – ruggisce – anche se la gente la pensa così. Ma che parlino pure: più dicono che sono finita e più lavoro duramente”.
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