THE MAGAZINE – Ogni quattro anni si rianima la discussione sul reale valore del torneo olimpico di tennis. Questa volta più che mai, visto che ben cinque top 10 hanno deciso di disertare Rio 2016. E Zika non c’entra granché…Questa cosa che, ogni quattro anni, uno si ritrovi a rispolverare l’archivio di quello che ha già pensato e scritto sul rapporto alla Sandra e Raimondo Vianello tra tennis e Olimpiadi, è un esercizio un po’ stanco, però credo serva. A me sicuramente, ché si può cambiare idea dal 2012 al 2016 (quattro anni fa Beppe Grillo mi pareva stesse facendo qualcosa di interessante, oggi lasciamo perdere) ma forse anche a qualcuno di voi, che vi ritrovate a leggere pezzi di propaganda commissionati dai detentori delle convocazioni per difendere a tutti i costi la Santa Maglia Nazionale, oppure post su Facebook di coach e giocatori che passano la vita a ragionare con l’Iban e si fanno beffe del torneo dei Giochi, e non sapete da che parte girare il naso.
Come prima cosa, sgonfiamo la palla del Golden Slam. Un’invenzione idiota: come si fa ad affiancare idealmente il torneo olimpico ai quattro titoli Slam, come fossero parenti? Cara grazia che, stavolta, nessuno è in corsa per aggiudicarselo: neanche Djokovic, secondo cui la medaglia d’oro vale uno sproposito. Ma va così perché lui è serbo, perché gli hanno insegnato il Dio-patria-famiglia e quella cosa del gesto delle tre dita; o, semplicemente, perché ognuno è libero di pensarla come vuole e l’attaccamento ai valori, buoni o malsani che siano, sfugge quasi sempre alle gerarchie. Questo succede, appunto, quando c’è libertà, in mancanza di un valore assoluto: se qualcuno sostenesse che Gstaad vale più di Roland Garros, lo rinchiuderebbero. Se il peso del torneo dei Giochi fosse chiaro a tutti come uno Slam, non ci sarebbero pareri dissenzienti.
A proposito: a far suo il cosiddetto Golden Slam c‘era riuscita Steffi Graf, nell’Ottantotto. Cioè quando avrebbe vinto contro chiunque, anche con una spruzzata di spray al peperoncino negli occhi. Ma la concorrenza era già zoppa per conto suo: Martina Navratilova, sua prima rivale e una delle grandi assenti a Seul quell’anno, aveva rifiutato la convocazione perché, udite udite,volevano obbligarla a sbianchettarsi gli sponsor che le riempivano le maniche come un capo scout. A Wimbledon ti mettono i cerotti bianchi sulle iniziali della maglietta, e va tutto bene. Ai Giochi, tanto può bastare per offendersi e darsi alla macchia.
Ecco, a proposito: il Cio è ancora lì, a tentare di respingere la marea con uno scopino, con regole da convento su cosa puoi e non puoi appiccicarti addosso per promuovere un’azienda durante le Olimpiadi. Manco a dirlo, però, la regola vale solo se l’azienda è una di quelle che non paga per essere associata al logo olimpico; altrimenti, avanti signori e viva la pubblicità, anche dipinta col pennarello sulla fronte.
Credo – potrei sbagliarmi – di aver sempre pensato che aver estromesso il tennis dall’elenco degli sport olimpici fosse stato un gesto miope e profondamente iniquo nei confronti di una disciplina degnissima, pure più di altre che non mancano mai di distribuire medaglie nell’indifferenza generale. Una scelta che danneggiava lo sviluppo del nostro sport, facendo mancare pubblicità alla pratica e mezzi per sostenerla nei Paesi sportivamente più arretrati. Però, insomma, c’è pure da capire il clima degli anni Venti: la racchetta era per pochissimi e a qualche parruccone pareva rinunciabile come oggi una gara di skateboard; anzi, da osteggiare perché esclusiva, elitaria, foriera di disuguaglianze. Ma il tennis era globale da tanto, troppo tempo quando venne finalmente reintegrato, nel 1988 appunto. Quella riammissione scontò, tuttavia, un forfait quasi osceno e molto indicativo: il numero uno del mondo, Mats Wilander, non andò a giocare. Pessimo segnale: il mansueto Mats se ne rimase a casa, così come l’altro dittatore del tennis, Ivan Lendl. Vallo a spiegare a uno sprinter, che al miglior tennista del pianeta poteva e può benissimo non interessare un bel nulla della medaglia d’oro: forse basterebbe questo, per chiudere il dibattito. Se un atleta di punta non si presenta a una competizione senza giustificazioni, se non quella che non la considera meritevole di trasferta, fine: non puoi costringere la gente a essere felice, o a pensarla come piace a te. Semmai, puoi obbligarla a fingere, come capita a chi risponde alla convocazione con argomenti che magari rimangono esclusi dalle conferenze stampa. Non c’è mai stato bisogno di convincere nessuno del valore di Wimbledon; delle Olimpiadi sì, altrimenti nel 2004 non avrebbe vinto due ori Nicolas Massu. Né oggi, a Rio, mancherebbero cinque dei primi dieci tennisti del mondo, un tasso di mortalità che si registrava solo all’Australian Open prima della rivoluzione del calendario.
Eppure, il tennis ai Giochi c’è ed è giusto ci sia. Pensarlo escluso dalle discipline rappresentate nell’evento per eccellenza dello sport planetario sarebbe voler concedere un favore postumo a quello che lo definivano “un gioco”. Tutto il resto, però, non funziona. Per esempio, i punti per la classifica che, infatti, sono stati finalmente tolti di mezzo: la nostra è una disciplina, con tutte le sue storture, tendenzialmente meritocratica, almeno nelle intenzioni: partecipi a un torneo se hai i punti sufficienti per entrare, altrimenti devi partecipare al torneo di qualificazione, oppure (a parte le wild card) ciccia. Ai Giochi, no: può contare più l’ospedale in cui sei nato del tennista che sei. Così, ti ritrovi in tabellone un ragazzo come Darian King delle Barbados (sorteggiato contro Steve Johnson: auguri!) perché queste sono le Olimpiadi e non il Master 1000 di Toronto, mentre se sei il quinto di un Paese ricco di giocatori come la Spagna, e magari testa di serie negli Slam, niente da fare.Non puoi giocare. Non pare ci siano alternative ragionevoli al criterio delle quote-nazione con le wild card assegnate dal comitato. Ma in uno sport che funziona per ranking in tutto il resto dell’anno, è un vulnus che francamente si fatica ad accettare.
Come lo è negare l’accesso a chi, come Kevin Anderson, Ivo Karlovic, Lucas Pouille, Jeremy Chardy. eccetera non ha preso parte a sufficienti incontri di Coppa Davis, che per il Cio sono una sorta di servizio militare obbligatorio per il torneo olimpico. Ma se questo aspira a essere considerato come uno Slam, perché legare l’iscrizione a un altro criterio, peraltro sommamente discutibile? E se il mio capitano mi snobba? E se la mia federazione è in crisi e mi costringe a giocare la serie C senza manco rimborsare le spese? Dopodiché, non che per i grandi abbia mai fatto una gran differenza ma, al torneo olimpico, manca pure il compenso. Il soldo, che per tante discipline povere è una motivazione formidabile: 150.000 euro lordi girati dalla federazione per un oro nella scherma sono tantissimi. Per Murray, meno dell’1% del fatturato complessivo. Quindi, alla fine, è anche normale – o comunque non degno di scandalo – che un professionista già poco attratto dal torneo per questioni sue, decida di marcare visita, come ferocemente dichiarato da Ernests Gulbis: per lui, come per altri più delicati nelle esternazioni che magari si sono inventati la paura del virus Zika (Berdych, Raonic, Halep: però a Parigi, con gli attentati, la fifa svanisce), quello di Rio è turismo tennistico. Del resto, in tutti gli sport in cui l’Olimpiade non stabilisce uno standard è fatale che venga considerato così, sostanzialmente un affare di coscienza e cultura personale: qualcuno ci tiene, altri no, vale il mio parere come il tuo.
Agassi può sostenere liberamente che l’oro di Atlanta 1996 è valso più di tutto, ma sarebbe bello potergli levare per mezz’oretta il successo di Wimbledon del ‘92 o quello allo US Open ’94 per assistere a un probabile e subitaneo cambio di idea. Nel tennis, poi, rispetto al basket o al volley che pure hanno i loro circuiti e l’attività privata di club, manca un altro elemento fondante della motivazione: la squadra. Hai un bel fantasticare di Casa Italia, Team Usa e quello che ti piacerebbe fosse, ma non è una felpa con la bandierina che stabilisce l’esistenza di un gruppo. Nel tennis, ciascuno impara a fare per sé e anche le aggregazioni basate sullo spirito olimpico sono spontanee, ci possono essere come no, tanto che John Isner risponde, da numero uno americano, alle convocazioni di Coppa ma a Rio no, non è andato. Non è neanche onesto declassarla a mera esibizione: in fondo, quell’abbraccio lacrimoso tra Federer e Del Potro dopo la semifinale-fiume del 2012 a Londra non avrebbe avuto cittadinanza nella Hopman Cup o durante The Boodles.
Insomma, qualche spruzzata dello spirito dei Giochi entra in circolo anche nel torneo olimpico di tennis, ed è quella sensazione fuggevole di aver visto inquadrato un decatleta serbo, un fiorettista svizzero o un canoista britannico e non Djokovic, non Federer, non Murray che, non sai perché ma in fondo sì, sono lì a sputare sangue in nome di qualcosa di indefinito ma più grande, più nobile, più bello. Forse anche più giusto.
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