E' sempre molto interessante quando scrive di tennis un cronista che non se ne occupa abitualmente. Dopo l'ultimo Us Open è capitato a Peter Aspden del Financial Times, dove di solito si occupa delle pagine culturali. Grazie a un evento organizzato da NetJets, la compagnia di jet privati utilizzata da Novak Djokovic, ha avuto l'opportunità di fare un viaggio con lui da Belgrado a Monte Carlo, tracciando un ritratto molto interessante del numero 1 ATP. Niente che l'appassionato non sapesse già, dalle bombe NATO alla dieta priva di glutine, ma ben scritto con un paio di aneddoti interessanti come la “benedizione” a Nick Kyrgios. Lo hanno tradotto per per il “Sole 24 Ore”, noi lo abbiamo perfezionato aggiustando alcune imprecisioni proprie di chi non conosce il tennis. Buona lettura.
A metà pranzo Novak Djokovic non ha ancora toccato cibo. Mi preoccupa. Per dargli il tempo di mangiare, racconterò al migliore tennista del mondo come gioco io. Già in genere faccio pena, ma diventa un vero incubo quando mi trovo 30-40, ho sbagliato la prima battuta e mi sembra di guardare dentro un buco nero esistenziale. La mia autostima viene meno e puntualmente mando la palla fuori. E lui cosa prova nei momenti “difficili”, con una posta in gioco ben più alta della mia?
«La prima cosa è essere presenti in quel momento», mi risponde tranquillo. «È più facile a dirsi che a farsi. Devi scacciare tutte le distrazioni e concentrarti solo su quello che stai per fare. Per raggiungere quello stato di concentrazione, bisogna avere molta esperienza e una grande forza mentale. Non è un dono con cui si nasce, te lo devi conquistare».
L'eloquio è fluente, intenso e misurato, un po' come i suoi colpi da fondocampo. «Nel tennis, puoi avere metà vittoria in pugno ancora prima di entrare in campo. Se non ci credi, la paura prende il sopravvento e non la riesci più a gestire. È una linea sottile. In quei momenti l'energia è alle stelle: come la sfrutterai? Lascerai che ti consumi o la accetterai e le dirai: «Bene, lavoriamoci insieme».
Difficile credere che questo campione così meravigliosamente sicuro di sé abbia i suoi momenti di paura. Gli è mai capitato di avere paura in campo?
«Sì, certo. Chi non ha paura? Io non credo a chi dice di non avere paura. Ma la paura è come una nuvola in cielo. Una volta passata, il cielo è azzurro terso».
Non se ti chiami Andy Murray e non sei cresciuto sotto le nubi plumbee del cielo scozzese, replico io, e Djokovic, educatamente, ride.
A proposito di cieli, il nostro è un cielo terso del Sud d'Europa, siamo a bordo di uno degli ultimi modelli della flotta di NetJets, la società di jet privati. Siamo partiti da Belgrado alla volta di Montecarlo, dove Djokovic vive con la moglie Jelena e Stefan, il loro bambino di undici mesi. Mi ha promesso due tiri nel pomeriggio al Country Club dedicato ai clienti di NetJets. L'aereo sul quale stiamo viaggiando è anche un po' suo, secondo gli accordi di proprietà frazionata di NetJets. Basta che lui dica quando gli serve e loro organizzano tutto. Tempo meteorologico permettendo, è semplice come chiedere di farsi incordare la racchetta.
È l'unico modo di viaggiare con i ritmi e i compensi da capogiro di un tennista professionista. Djokovic non si ferma mai: è in vetta alle classifiche e ha vinto tre dei quattro Slam stagionali. È sempre in viaggio e ha bisogno di riposarsi perché proprio non gli riesce di farsi eliminare ai primi turni. Con i suoi dieci Slam è al settimo posto nella classifica del tennis di tutti i tempi, e non è che l'inizio. A 28 anni, Djokovic è nel pieno delle forze: in forma, sulla cresta dell'onda e al continuo inseguimento di due avversari con più titoli di lui: Rafael Nadal (14) e il detentore del record Roger Federer (17).
Djokovic ha sofferto – per quanto problematico sia l'uso di quella parola con una figura di tale levatura sportiva – della sindrome del “terzo uomo”. La sua ascesa è stata vista come un'intrusione pretenziosa che turbava il duello perfettamente calibrato tra i due archetipi del tennis: Roger Federer, lo svizzero elegante e imperturbabile, e Rafael Nadal, lo spagnolo taurino. I loro scontri hanno catturato l'immaginazione collettiva toccando livelli di eccellenza inimmaginabili. E Djokovic, come poteva inserirsi?
Be', battendoli. Il serbo ha trionfato su Federer nelle finali degli ultimi tre Slam e la sua vittoria in cinque set su Nadal agli Australian Open del 2012 è entrata negli annali del tennis come una delle più grandi batoste di tutti i tempi, l'equivalente di “Thrilla in Manila” tra Mohammed Alì e Joe Frazer. Quella vittoria ha segnato la svolta. Della serie: è arrivato il terzo uomo e farà molta strada. Siamo seduti uno di fronte all'altro, sedili in pelle e rivestimenti in legno pregiato. Poco dopo il decollo, ci vengono serviti due piatti di sushi e sashimi misto, vengono da Maya Bay, il ristorante preferito da Djokovic a Montecarlo. Mi congratulo con lui per la vittoria allo Us Open e gli chiedo quando ha ripreso la racchetta in mano, dopo quel trionfo.
«Dieci o undici giorni dopo. È il tempo massimo che mi concedo senza giocare e ne avevo un gran bisogno con l'anno tostissimo che mi lascio alle spalle. Avevo solo voglia di abbracciare mio figlio». E aggiunge: «Tutti i tornei sono estenuanti, ma quando vinci, c'è quel gusto in più…».
La settimana a Belgrado non si potrebbe esattamente definire una vacanza: Djokovic e la moglie si sono occupati della loro fondazione per l'istruzione prescolare in Serbia. Cosa li ha spinti in quella direzione? «L'esperienza personale. Io non ho avuto un'istruzione prescolare perché nella nostra cultura è meglio che i bambini restino a casa, con la famiglia numerosa. Non che ci sia niente di male in questo, anzi», spiega, ma l'istruzione è un mattone fondamentale, «qualcosa che nessuno può portarti via, ti aiuta a foggiare il carattere e ti stimola all'autonomia».
Djokovic non avrà goduto dei vantaggi dell'asilo, ma ha avuto una opportunità straordinaria: la dedizione di un'allenatrice, Jelena Gencic che lo vide per la prima volta quando aveva cinque anni, incollato alla recinzione del campo da tennis, nella località montana di Kopaonik, dove i genitori di Djokovic gestivano una pizzeria. Gencic chiese a quel bambino che la guardava con tanto d'occhi se voleva provare. Il resto fa ormai parte della mitologia di Djokovic. Gencic restò così colpita dal suo talento che corse subito dai suoi genitori per dire che sarebbe potuto diventare un campione.
Djokovic, che fino a quel momento non aveva mai preso in mano una racchetta, avrebbe intrapreso comunque la strada del tennis, se non fosse stato per quell'incontro? Con le mani fa un gesto come per dire: vai a sapere… «Non mi piacciono i “e se…”. Penso che tutto accada per una ragione precisa. Se cominci a farti quelle domande, non finisci più». Gencic chiese di seguire personalmente il bambino. «Lei aveva visto la scintilla nei miei occhi. Mio padre le credeva e credeva in me». L'allenatrice diventò il suo mentore introducendolo non solo al tennis, ma anche alla poesia, alle scienze e alla musica classica. Quando Jelena Gencic morì, durante i French Open del 2013, lo fecero sapere a Djokovic solo dopo il terzo incontro e fu un colpo durissimo per lui. «Era come una madre per me», dichiarò in conferenza stampa quella settimana.
Il ragazzo scala le classifiche, si fa conoscere per il livello di gioco molto costante, la capacità atletica, la forma fisica e qualche momento di nervosismo. E quest'anno, a parte i French Open, ha ottenuto tutto quello che voleva. Gli chiedo come fa ad alimentare tanta motivazione.
«Continuo a giocare a questo livello perché mi piace colpire la palla», mi risponde molto semplicemente. Perché, ci sono giocatori a cui non piace?, gli chiedo. «Oh, sì, ci sono persone che non hanno la motivazione giusta, non serve nemmeno parlare con loro, basta guardarli. Ma non voglio giudicare nessuno. Io rispetto la libertà di scelta di tutti. Se a loro sta bene…».
Essere il numero uno vuol dire anche diventare un modello di riferimento. Lui annuisce entusiasta. «Tantissimi giovani in tutto il mondo seguono ogni mia mossa». Potrebbe sembrare stressante. «La puoi vedere in due modi. È uno stress o un privilegio? A me dà forza ed energia. È un privilegio incredibile per me».
Djokovic continua a non mangiare. Il sushi, naturalmente, è ottimo. Pasteggiamo ad acqua. Non c'è da stupirsi: lui è molto attento a cosa introduce nel suo corpo e a quando lo fa. Un'altra puntata della mitologia Djokovic: quando era più giovane, si sentiva spesso male in campo e doveva abbandonare la partita. La cosa non aveva giovato alla sua reputazione nel corso della sua ascesa, tanto che persino Federer, che di solito è molto rispettoso, gli diede del “buffone”, una volta.
Poi, un giorno, mentre Djokovic stava giocando una partita in Australia, un dottore, Igor Cetojevic, lo vide in televisione e, pur non essendo un grande esperto di tennis, capì subito che la sua fiacchezza dipendeva dall'alimentazione. I due s'incontrarono qualche mese dopo, Cetojevic convinse Djokovic ad adottare una nuova dieta priva di glutine, latticini e zuccheri lavorati. La trasformazione a livello di salute e di gioco fu istantanea e radicale.
«Io credevo di avere un'alimentazione sana. Non mangiavo cibo spazzatura, non bevevo Coca-Cola, alcolici…». Ma capì che il problema era il glutine. «Ci pensai e mi resi conto che lo mangiavo tutti i giorni. Fa parte della nostra cultura, di accompagnare tutto con il pane, e io ne consumavo troppo».
Perse quattro chili in pochissimo tempo («che sono tanti per un atleta»), gli avevano detto che rischiava di perdere energie. E invece, «non mi sono mai sentito meglio: più pronto, presente, energico». Fu una brutta notizia per il resto del circuito tennistico che all'improvviso si trovava davanti un avversario rinvigorito con livelli di resistenza sovrumani. Da quel momento, Djokovic ha giocato 16 delle ultime 21 finali Slam.
Lui mi spiega che preferisce definire le sue nuove abitudini alimentari come un nuovo approccio alla nutrizione, più che una “dieta”. «Cerco di rispettare tutto quello che metto nel piatto», dice. Due anni fa ha scritto un libro, Il punto vincente. La mia strategia per l'eccellenza fisica e mentale, un misto di biografia, libro di ricette e manuale di auto-aiuto.
Il cibo è diventata una passione importante per lui e per la moglie. «Il 50% di quello che mangio è crudo» e mentre lo dice, prende un altro pezzo di sashimi, quasi a volerlo sottolineare. Ma passiamo al problema di noi tifosi del tennis. Siamo stati viziati da un'epoca d'oro. Djokovic e i suoi avversari hanno alzato troppo l'asticella e adesso temiamo un abbassamento del livello. Dove sono le future promesse del tennis e come faranno a stare al passo con quei risultati?
«Fino a due anni fa, ero preoccupato per il futuro del tennis. I giovani avevano un potenziale, ma non emergevano. La gente ama Roger, Rafa, ma prima o poi tramonteranno, come me. Poi, negli ultimi due anni ho visto arrivare tante stelle nascenti, [Borna] Coric, [Nick] Kyrgios…». Ah, lo interrompo io. Quello che non si è comportato benissimo, vero? (L'australiano è stato condannato e sanzionato per aver fatto commenti pesanti sulla ragazza di Stan Wawrinka durante il torneo di Montreal). «Sì, è lui, ma a dire la verità, credo che in fondo sia un buon ragazzo. Penso che viva una crisi di identità, deve ancora trovare un suo equilibrio. Ho parlato con lui a New York, gli ho detto: “Senti, so che sei stato criticato da tutti, me compreso”, ed ero felice di averglielo detto in faccia. Ma ci tenevo a dirgli che avevo sofferto anche io per cose simili, magari non così, e che sono esperienze preziose. Gli ho detto: “Se ti va di parlare, sono qui e sono pronto ad aiutarti”. Mi sono allenato con lui, ci ho parlato, è un buon tipo, e ha un grandissimo talento».
Cominciamo la discesa. Gli racconto che l'anno scorso l'ho visto su un murales della città serba Andricgrad, un progetto imponente opera del regista Emir Kusturica, che è amico di Djokovic. Chiedo come è stato essere un astro nascente dello sport, con forti sentimenti patriottici, negli anni Novanta, in piena guerra della ex-Jugoslavia, quando quei sentimenti venivano condannati dal resto del mondo. «È stato uno dei capitoli più bui della storia del popolo serbo», mi risponde. «Ogni giorno c'erano file per il pane. Nel 1999, durante i bombardamenti Nato, le nostre vite erano sempre in pericolo. Hanno ammazzato tanti innocenti senza una ragione». Quegli avvenimenti mi hanno «aiutato a essere quello che sono oggi. Mi hanno reso mentalmente più forte, affamato di successo. Ti restano nel cuore, per sempre. Non te li puoi dimenticare. L'unico modo è andare avanti, perdonare, usare quell'esperienza come rinforzo positivo». E torna sulla paura: «Se incanalata nella direzione giusta, la paura si trasforma in forza».
L'aereo atterra e ci salutiamo. Più tardi, nel pomeriggio, vedo Djokovic che arriva al Country Club. Con i suoi modi impeccabili, conquista tutti i presenti. Adulti e bambini gli chiedono dei selfie. È nella sua veste di modello di riferimento, recita la parte della perfezione. Penso che più che passare alla storia come il terzo uomo, potrebbe addirittura superare le qualità archetipiche dei suoi due rivali e diventare più cortese di Federer e più volitivo di Nadal.
A un certo punto si avvicina al ricco tavolo del rinfresco, prende un pezzetto di pizza che sarà stato grande 2 centimetri quadrati e se lo mette in bocca. Io mi giro verso Greg Rusedski, ex-tennista inglese e maestro di cerimonia dell'evento. «La pizza non contiene glutine?», chiedo provocatoriamente. Rusedski sorride. «A volte, qualche piccola trasgressione fa bene». E non è la prima volta: nel 2012 Djokovic festeggiò la vittoria agli Australian Open con un quadratino di cioccolata.
Arriva il momento di giocare con Djokovic. Sono nella lunga fila dei clienti NetJets, avremo due minuti ciascuno. Ci saranno duecento spettatori che sorseggiano champagne e ci seguono più attenti di quel che mi aspettavo. Viene il mio turno, cerco di trasformare la mia paura in forza. Lo scambio è leggero permettendomi di “vincere” senza neanche muovermi verso la palla. Con un numero da maestro, mi dice che gli piace “la mia espressione mentre gioco”. Io mi riprendo, cerco di ritrovare la concentrazione e chiudo lo scambio con una pronta volée che manda la palla esattamente dove volevo io, con mia sorpresa. Parte lo scroscio di applausi. È uno dei più bei momenti della mia vita.
Lui viene alla rete per stringermi la mano. «Il momento! Il momento!», ripete ridendo, poi si gira e torna a fondocampo per affrontare il prossimo avversario.