Un appassionato ricordo di Paolo Canè, il mitico "turbo-rovescio" che ha emozionato gli italiani. La Davis, i ricordi, i campioni, e la "quasi impresa" contro Lendl. Di Marco Bucciantini

di Marco Bucciantini

Solo i tifosi – nei loro sogni – vincono partite che sono perse. Smontano i fatti rimpiazzando alcuni pezzi con la passione. Così sogno che Canè batte Lendl, a Wimbledon, in una partita persa 24 anni fa. Non era doppio fallo, aveva preso un pezzo di riga, guardate il replay di occhio di falco: puff, è una nuvola di gesso che vola via, 5-3 Canè, quarto set, è fatta.
Invece no. Non c’era occhio di falco, e comunque la palla era fuori, di poco, ma era fuori. “Avevo giocato fuori giri, al massimo per due giorni (ci fu la pioggia, in mezzo, altrimenti che Wimbledon era?). Così poi sul 5-5 del quarto set la benzina era finita: non nelle gambe, ma nella testa. I campioni come Lendl, e come Edberg, Becker, McEnroe, Wilander potevo vederli vicini, in un giorno solo, mentre li combattevo. Potevo scambiarci alla pari, avevo le mie armi e alcuni li ho battuti. Ma alla distanza li vedevo fuggire via. Loro “tenevano”, erano giganti che sapevano giocare quel tennis per ore, per giorni, per settimane. Io no: questa era la differenza”.
Quando parla, Paolo Canè ti guarda dritto negli occhi. I suoi sono azzurri, seguono l’interlocutore, cercano una simpatia, un rapporto. La sua pelle è abbronzata come conviene a chi lavora all’aria aperta, da sempre. I tatuaggi scrivono storie e informano di un bambino, Lorenzo, che vive lontano, con la madre, ma cresce addosso al padre: “Guarda qua”, e mostra la foto di loro due, insieme, due volti abbracciati per entrare dentro l’obiettivo di un cellulare. In questo pomeriggio passato sul crinale scivoloso che divide e confonde il passato e il presente, è l’unica volta che Canè si commuove e non lo può nascondere: i suoi occhi si bagnano, ma non si abbassano. Più tardi mostrerà un’altra foto, più datata, ben conservata dentro il portafoglio e con i colori appena un po’ virati: lui è un ragazzo coi capelli lunghi e ride su un campo di cemento con due compagni di viaggio, Omar Camporese e Diego Nargiso. Sono a Seul, ai tempi
dell’Olimpiade.
 
GALLINE E BASTONI


Il fisico di Paolo è ancora asciutto, atletico. Il tennis era il suo mestiere, e lo è anche adesso che sta crescendo Gianluca Bergomi, diciottenne che cerca una strada in questo sport. I capelli sono ancora il rifugio della sua bizzarria: non ha più riccioli che cadono lunghi sulla schiena, e nemmeno quel grigio argentato inaugurato pochi mesi fa, che lo faceva somigliare a un miliardario texano. Oggi è biondo fresco, con spruzzate di bianco talco; si mostra compiaciuto e cerca conferme, nessuno ha il coraggio di contraddirlo ma io posso tradirlo qui, a distanza: ha incontrato un parrucchiere da ergastolo.
Cocci di memoria. Il prato inglese, tagliato oggi a 8 millimetri ma un tempo più basso e rapido, il loglio che allora era mischiato con la festuca, e l’erba non veniva su dritta ma si schiacciava al suolo, rendendo i rimbalzi poco prevedibili. Questo racconto non lo sentirete più: “Non c’era possibilità di allenarsi su un prato simile. E non c’erano campi in erba in Italia. Non ero mai stato a Wimbledon e non capivo cosa potessi trovarmi davanti. Mi seguiva Roberto Lombardi, mi allenavo con mio fratello Fabrizio. Trovammo un campo vicino Bologna, confinava con un’aia piena di galline. Ci ricavammo un piccolo giardino. Era tagliato basso, dunque rimandava palle insidiose, i rimbalzi erano insinceri: quello che serviva, così immaginavo fosse Wimbledon, così me lo raccontava Lombardi. Mettemmo due bastoni a simulare la rete. Fabrizio batteva e io cercavo di rispondere”. Adesso pensate a Lendl, alla sua maniacale voglia di vincere a Londra,
un tarlo che gli ha divorato la felicità, che lo ha lasciato incompleto ma che lo costringeva a una preparazione fanatica (un anno rinunciò perfino a Roland Garros per dedicarsi due mesi ai prati). Eppure per tre ore il nostro – quello delle galline, dei bastoni… – fu superiore al primo giocatore del mondo. Lendl vinse perché seppe gestire, per abitudine, quella tensione. E perché, con tutta la sua umiltà, accettò di essere governato dall’estro dell’altro, e cercò di evitare il passante di diritto di Canè, che lo puniva puntualmente.
 
QUEL GIORNO A CAGLIARI…
Paolo abita una parte lunga della mia vita, intorno all’adolescenza e su fino ai vent’anni. È l’inquilino dei pomeriggi consumati aspettando i risultati. “L’attesa di un match mi bruciava. Invece di scaricare la tensione, mi contorcevo e l’adrenalina mi logorava. Poi, in campo, la prima palla colpita mi restituiva la pace. E potevo iniziare a combattere”. Canè albergava nelle mie immagini, imitato ma inimitabile, con i suoi riccioli lunghi, con la sua smorfia disperata, con la sua mimica da attore. “Mai seguito una moda, portavo i capelli come mi andava. E mi andavano lunghi”. Paolo soggiornava sul divano, accanto a noi, mentre Galeazzi sprofondava nel lirismo, raccontando una Davis decorosa e perdente. “La mia partita più bella fu una sconfitta, con Muster, a Vienna”. L’austriaco in Coppa Davis non perse mai nei match in casa, quel giorno ci andò più vicino di sempre: vinse al quinto, 7-5 7-5 1-6 4-6 6-3, e finì con la faccia di chi aveva subito una lezione di tennis, di variazioni di ritmo, di smorzate. La partita più brutta? “Contro Oncins, in Brasile, sempre in Davis. Un ricordo orrendo, 18 magliette cambiate per l’umidità e il caldo, la sconfitta dopo troppe ore di scambi, due unghia incarnite”. Il punto più bello? È ovvio: “Lo scambio contro Wilander chiuso con il rovescio incrociato, dopo un palleggio infinito, la volée in tuffo, un primo passante fra i piedi dello svedese…”. È sempre Davis, a Cagliari, in un giorno di unità nazionale davanti al televisore, un ricordo condiviso che ancora rinviene negli appassionati.
Tutti i pensieri “polari” di Canè sono legati alla Davis, manifestazione che evidentemente nelle gerarchie sopravanzava il resto: al di là del sentimento patriottico, questo è stato un limite. Certo, in quelle partite Canè era enorme – e mai perse in casa. Come a dimostrare la sua necessità di essere protetto, anche da se stesso, in un ambiente irripetibile fra i tifosi, con il coach a bordo campo, e l’attenzione mediatica. Fuori da questa “coercizione”, era assai più alterno e dispersivo.
Un giorno sogno che Canè torna a giocare e batte Nadal, sulla terra rossa al Foro Italico. Batte Nadal prendendosi quella gloria mancata, quel risarcimento per scongiurare d’invecchiare con il più infido degli acciacchi: il rimpianto. È lui a svegliarmi: “No, ci avrei perso 6-1 6-1. Ma non mi sarei messo a correre in fondo al campo, a perdere 6-3 6-4 facendo venti chilometri. Lo avrei affrontato variando velocità e lunghezza. Sparando alla prima palla utile per entrare dentro il campo. Sicuramente non sarebbe servito, ma avrei corso due chilometri, invece di venti”.

PAPA’ BELARDINELLI
I tifosi sono più poeti, è sicuro. E affronto questa intervista con il culto della soggezione. Ho letto questa bella frase: tutti agognano il paradiso meritocratico e nessuno sa più come si subisce la soggezione del merito. La condivido, e la subisco, davanti a Canè. Si è imposto tanti anni fa, con gesti ampi e fluidi. Due splendidi fondamentali nel palleggio, che sapeva variare per forza, angolo e rotazione. Il servizio era particolare, una frustata corta, caricata ruotando le spalle, in un gesto di difficile lettura per chi rispondeva. Frequentava la rete con parsimonia ma lo faceva dimostrando una bella mano e con la propensione al ricamo, alla finezza. Adoravo il suo diritto lungolinea che sbilanciava gli scambi, morendo senza peso all’angolo dell’altrui rovescio, ma questa è una preferenza personale. Il resto, sono i suoi meriti, di un bambino indeciso “fra il calcio e il tennis. Con il pallone ero bravo, stavo nelle giovanili del Bologna. Ma mio padre viveva di tennis e mio fratello – tre anni più grande – già giocava. La strada era segnata”. Di un ragazzo che scoprì un idolo, “McEnroe: rendeva facile un esercizio difficile, impossibile per molti. I suoi tocchi avevano grazia e naturalezza”. I meriti e la tigna (sì, anche quella) di un giovanotto che è cresciuto in fretta: “A 13 anni cominciarono i periodi a Formia, lontano da casa, al centro federale diretto da Mario Belardinelli. Incontrarlo fu tutto. Divenne il mio secondo padre”. Belardinelli è un personaggio leggendario. Disse di aver insegnato il rovescio al Duce e di essere un asso con le carte. Di sicuro, era un grande tecnico e una bella persona: “Tutti i tecnici di oggi, tutti insieme intendo, non lo valgono. È stato il più grande, preparato, capace, carismatico. Il rispetto per lui ti faceva impegnare, questo è il segreto di un grande allenatore, in tutti gli sport: farsi rispettare e
'costringere' gli atleti a dare il massimo, per onorare quel rispetto. Arrivai a Formia che pesavo 40 chili. Ero da costruire fisicamente, e avevo un bel talento. Lui mi disse: diventa uomo”. Quando Canè divenne professionista, Formia chiuse e Belardinelli andò in pensione. “Oggi la Federazione a Tirrenia fa un lavoro superato. Dovrebbe organizzarsi in centri regionali, selezionare i migliori giocatori, affidarli ai coach, che fra loro devono comunicare, mettere insieme le esperienze. La mia generazione è stata tagliata fuori: né io, né Camporese, o Nargiso, o Cancellotti… Claudio Panatta… nessuno lavora con la Fit. Eppure avevamo qualcosa da dire. Eppure la Spagna insegna quanto è importante fare gruppo: quando uno di loro è in campo e gli altri non giocano, vanno in tribuna a tifarlo. Si scambiano sostegno, consigli, si allenano insieme. In Italia ognuno difende e cresce il suo orticello. E resta fuori un grande terreno incolto”.
 
IL MATCH DA RIGIOCARE
Ogni tanto sogno (con gli occhi aperti, fissi chissà dove) che Canè abbia vinto il match contro Martin Jaite, Roma, 1987, quarti di finale. Ma questo lo sogna anche lui: “Sì, è la partita che vorrei rigiocare, che mi tormenta aver perso”. Stava dominando, avanti di un set e di un break nel secondo e poi anche nel terzo. Jaite era un argentino che sapeva di tennis, capace di vincere 12 tornei, entrare nei primi dieci del mondo e mettersi fra Paolo e le soddisfazioni (lo sconfisse anche in finale a Bologna, nel 1986). Però, quel giorno al Foro Italico Canè era più forte. E dunque batte Jaite. In semifinale poi c’è Joakim Nystrom, svedese sapiente e un po’ monotono: finisce come è sempre finita fra bolognese estroso e i regolaristi (Nystrom poi, fu sconfitto dal nostro 2 volte su 2). Siamo in finale, io, lui, tutta l’Italia del tennis. Contro Wilander, guarda un po’. Un altro che Canè è riuscito a sconfiggere due volte, sempre in Davis. Chiunque ami o semplicemente segua questo sport, sa cosa è successo a Cagliari, gennaio del 1990, ultimo match del primo turno di Coppa Davis, Italia-Svezia 2-2. Anche quella volta servirono due giorni. La domenica finì in parità: Canè aveva speso troppo per vincere il primo set, tatticamente e tecnicamente dominato. Così poi era rinvenuto Wilander, con i suoi semplici schemi un po’ parassiti, ma regolari come il destino. Secondo e terzo set per la Svezia. Nel quarto, con lo stadio del tennis ormai in ombra, Canè aveva sfinito Wilander accorciando la diagonale di rovescio, e bombardandolo con il diritto: “Questo era il mio gioco: il rovescio tesseva, costruiva. Il diritto chiudeva”. Il lunedì fu il trionfo. Ci fu tutto quello serviva per la memoria collettiva: la fuga, la rimonta svedese, la crisi di nervi, un paio di diritti immensi, e quella volée in tuffo in uno scambio chiuso con il passante incrociato di rovescio e lo smash
finale. Ma non siamo a Cagliari: siamo al Foro Italico, in finale, Canè contro Wilander. “Ma io non faccio cambio”, dice Paolo e scuote la testa. Capisce cosa desidero sentire: prendetevi quella partita in Davis e datemi la finale di Roma. Stiamo fantasticando, vent’anni dopo. Un giornalista e un tennista. Un ragazzo e il suo idolo. Due uomini che cercano di rivivere il passato, e truccarlo, aggiustarlo come meccanici, e chissà chi è che ne sente maggiormente il bisogno. “No, mi tengo la Davis”. E non solo perché quella partita è esistita, e tuttora esiste, nei ricordi. Mentre l’altra è un’idea, forse un chiodo da togliere dalla carne della memoria. Si tiene la Davis perché è il suo patrimonio, l’altro modo di essere ricordato se qualcuno è in grado di sciogliere i lacci dei luoghi comuni: sì, c’era il tennista maleducato e nevrotico, ma ci fu anche la vittoria di Cagliari, tre tornei maggiori, le vittorie contro Edberg, Connors,Wilander, Cash, Muster, Ivanisevic. “Questa riduzione della mia carriera alla mia irrequietudine è insopportabile. Ho fatto il mea culpa, ho sbagliato e ho pagato. Sono stato giudicato da persone che non ho mai conosciuto. Ho fatto molta strada e mi sono scelto i compagni di viaggio, anche quelli sbagliati, anche quelli poi finiti in carcere. Ho capito dopo che ero amato da molti appassionati, e che dovevo difendere i miei risultati dall’immagine di un ragazzo maleducato, nervoso, iroso”. Quel lunedì, a mezzogiorno, una generazione di italiani marinò la scuola per vedere Canè-Wilander. “Avevo difficoltà a giocare al meglio dei cinque set. La tenuta fisica è stata il mio limite. Due giorni in Davis li reggevo, quella era l’asticella. Mi rimproverano di aver fatto poco negli Slam, al massimo il secondo turno: non è un mio rimpianto, quando spremevo il fisico, finivo infortunato. Anche nei tornei, la terza-quarta partita cominciavo a
soffrire”.
 
PRIMA E DOPO
C’è uno spartiacque nella carriera di Paolo. Un prima e un dopo. Nel mezzo, a 25 anni, c’è la schiena che va in pezzi. L’infortunio, le ripetute operazioni, tolsero continuità a un tennista che già ne aveva poca per indole ma che era riuscito a essere numero 26 del mondo alternando mesi di grazia a stagioni senza vittorie. Si guarda indietro e non ha alibi. “La carriera a volte gira su due punti, sono due palline che invertono la vita. Ma io non so se quei punti li ho vinti o li ho persi. Però so che sono diventato uomo, grazie al tennis. Questo ho fatto negli ultimi 39 anni della mia vita, da quando ne avevo 7. Puoi cullarti con lo staff, circondarti di tutti, ma alla fine il tennis è lo sport singolo per eccellenza. Si vince e si perde da soli. Quando vincevo ero un fenomeno, quando perdevo ero uno psicopatico e fra le due cose magari passavano sedici ore: che metro di giudizio è? Sono diventato uomo con questo sport: quello che ho imparato è passato dal campo, tutti i giorni. Ho lo sport addosso, e le sue regole: accetto di perdere, so che succede spesso. In campo, e nella vita”. Paolo è bolognese e vive a Bergamo: “Qui ho i miei amici e il mio lavoro. È venuto anche Fabrizio con la sua famiglia”. Lui è stato importante, “era il muro con cui sbattere, il giocatore più grande, più forte, da raggiungere, capace di rimandarti la palla buona per crescere”. Paolo batté Fabrizio a 13 anni e non è un caso se quello è stato l’anno della partenza per Formia. “Sono andato via di casa da ragazzo, mi sono perso qualcosa, frasi e chiarimenti lasciati lì, in attesa. Lo capisco quando incontro mia madre. L’ho capito quando è morto mio padre: avevo ancora qualcosa da dirgli. Lo stesso anno è nato Lorenzo”, e lo dice come se immaginasse quel pareggio che nelle regole del tennis – dunque della sua vita – è negato. Un tennista professionista gira il mondo, ma non lo vive. “Sono stato nelle più belle città del mondo e non le ho viste. Non mi vergogno di quella ignoranza, di quella stagione. Ci torno adesso, quando posso, e le scopro”.
La solitudine costruisce edifici, anche invisibili, come la musica: “La ascoltavo per ore, in hotel. Dopo la partita, prima e dopo le cene, nelle ore di sonno. Quando stavo con Paola Turci avevo cominciato a suonare la batteria, che tengo lì, da parte: se non avessi fatto il tennista, avrei fatto il musicista”.
 
MORIRE DANNATI
Non ha fatto calcoli, mai. Rischiando un’esistenza più spoglia di avvenire, perché quando finisce, bisogna inventarsi tutto. “Dovevo mettere qualcosa da parte, avviare un’accademia quando giocavo e andava tutto bene. Allora avevo un posto ovunque, quasi mi spettasse di diritto. Adesso invece pago il biglietto anche per vedere giocare l’Italia in Davis. Devo rimontare, ma questa è la mia passione. È l’obiettivo che mi anima. Che mi brucia”. Cerca le fiamme, per trovare calore. “Mia madre mi dice sempre: hai avuto una vita dannata, morirai dannato. Non succederà, ho macinato la vita, dovevo gestirmi meglio e dare importanza maggiore ad alcuni rapporti, e rinunciare ad altri. Adesso ho 46 anni, ci metto la testa e cerco di masticare con calma. Ho mio figlio, vederlo crescere è la mia misura del tempo. In tutti i rapporti adesso cerco e do di più. Sto scrivendo la mia biografia. Quella “maledetta” di Agassi? Mah, se in America fai sapere in giro che ti sei drogato, che hai avuto momenti difficili, sei un personaggio, un eroe che ha superato i patiboli della vita. Se lo dici in Italia, sei uno sfigato”.
A Cividino il sole è netto, l’orizzonte è limpido. Canè si appoggia all’accademia di Mongodi per allenare Gianluca Bergomi, diciottenne. “Allenare è diverso: devi metterti dentro la testa e le braccia dei ragazzi. A me certe cose venivano naturali: a loro no. Rispetto ai miei tempi, si sono invertite le priorità. Un tempo, si giocava e si cresceva fisicamente negli anni. Oggi è il contrario: prima si diventa atleti, forti, resistenti. Poi si impara a giocare, e c’è tempo per migliorare fino ai 23-24 anni. Non mi mescolo troppo con loro, non voglio conoscere tutto della loro vita, non voglio diventare un cugino, uno zio, uno psicologo: la distanza è una forma di rispetto, e il rispetto è il miglior modo di farsi capire. Gianluca sa che io penso a lui, al suo bene. Deve fidarsi. Niente di più, niente di meno. Ho consigliato a lui di fare una vita semplice, attenta e ho preteso impegno senza diventare ossessivo: ci deve essere qualità nel
nostro allenamento e nel nostro rapporto”. Canè va in campo. Lo guardo muoversi e ritrovo le smorfie di un tempo. Le sue mani custodiscono segreti inviolabili. Ci sono altre mani avide, che stanno abbarbicate a tutto, con le dita intorpidite. Quelle di Paolo hanno fatto scivolare via molte cose, e altre ne cercano. Intanto, stringono la racchetta per disegnare gesti ancora ampi e fluidi. La sua immaginazione lotta ancora fra i piaceri dell’anarchia e quelli dell’ordine, come la vita si agita fra la speranza insonne e la saggia rinuncia. Azzarda un tocco, e lo ripete quattro volte, per dimostrarne la volontarietà: la palla rimbalza nel campo avverso e torna repentina indietro da sola, e per molti metri.