La vittoria di Marin Cilic a New York alimenta la delusione per tutti i giocatori che negli anni passati hanno tentato, invano, di scardinare i Fab Four.
Di Massimo Garlando – 4 ottobre 2014
Il mese di settembre è iniziato decisamente col botto: finale US Open tra due outsider, Marin Cilic e Kei Nishikori, che in semifinale hanno avuto la meglio sugli strafavoriti Federer e Djokovic. E' stata la prima finale Slam senza uno tra Djokovic, Federer e Nadal (e Murray, ma la statistica resta in piedi anche senza di lui) dopo 10 anni, dall'Australian Open 2005 vinto da Safin su Hewitt. Come sappiamo, ha prevalso agevolmente il croato (è nata una stella? mah, sono piuttosto perplesso in proposito. Potrà forse ripetersi, se il tennis attraverserà un altro periodo di transizione come l'epoca pre-Federer, ma mi sa tanto di impresona estemporanea e dovuta a favorevole congiunzione astrale), che ha per così dire chiuso il cerchio aperto da Wawrinka in Australia e ha definitivamente reso il 2014 l'anno dei pesanti scricchiolii nella dittatura dei Fab Four. A New York mancava Nadal, siamo d'accordo e siamo anche abbastanza abituati, ma credo che nessuno avrebbe scommesso un centesimo su una vittoria di Cilic, specie inizio torneo (non ci pensava nemmeno lui, visto che aveva prenotato l'aereo del ritorno con largo anticipo rispetto alla data della finale).
LA GENERAZIONE DEGLI SCONFITTI
Fin qui la cronaca, ma c'è un aspetto che mi preme sottolineare: il silenzioso dramma dei tennisti che, in questi anni, hanno tentato timidamente di sovvertirla, questa dittatura, senza riuscirci. E che, di punto in bianco, sono stati scavalcati a piè pari da due colleghi che, nella potenziale lista d'attesa, apparivano abbastanza (Wawrinka, comunque in crescita costante) o decisamente (Cilic) indietro. Parlo certo di Gasquet, il predestinato che non è mai sbocciato definitivamente, a causa di un mix di difetti fisici e caratteriali che chi lo mise in copertina su Tennis Magazine (quando aveva 9 anni!) non avrebbe potuto prevedere, ma non solo di lui. Richard ha infatti portato a casa due semifinali Slam, ma c'è chi in questo periodo ha fatto anche meglio. Prendiamo Tsonga, ad esempio. Dopo un inizio carriera fatto più di infortuni che di partite, nel 2008 a Melbourne piazza l'acuto che lascia immaginare una carriera sfolgorante e si arrende solo a Djokovic, dopo aver letteralmente spazzato via Nadal in semifinale. Da lì in poi qualche picco, diverse semifinali Slam, la sensazione di essere capace, in partita secca, di battere chiunque, ma non di azzeccare le due settimane magiche necessarie per scrivere il proprio nome nell'albo d'oro di un Major (più o meno come Nalbandian, del quale sta ripercorrendo esattamente la carriera). Un altro costante pretendente al tirannicidio è stato Berdych, finalista a Wimbledon nel 2010, sempre respinto con perdite ogni volta che si è presentata una timida occasione di gloria. Ma, in questi anni, il primo degli "altri" è stato certamente David Ferrer: una vita da numero cinque (posizione che occupa tuttora, peraltro), best ranking ritoccati in funzione degli infortuni e delle sparizioni dei primi quattro, una finale a Parigi, cinque semifinali Slam, 10 Slam di fila in cui ha raggiunto almeno i quarti. Tra tutti i candidati al ruolo di outsider-vincitore, è senz'altro quello che ha accumulato più crediti. E, ovviamente, è anche quello che ha preso peggio la repentina ascesa dei due usurpatori che hanno preso il posto dei tiranni, ma anche il suo: risultati sostanzialmente modesti, la fine della collaborazione con lo storico coach Javier Piles, l'infelice parentesi con Josè Altur e, dulcis in fundo, la racchetta disintegrata durante il match (perso) con Granollers, qualche giorno fa a Tokyo. Aveva probabilmente scagliato a terra la racchetta per l'ultima volta nel 2006, quando venne maltrattato da Federer nei quarti di Montecarlo e si beccò pure dell'arrotinus vulgaris da Gianni Clerici, preoccupato per le sorti del suo "attrezzo da lavoro". Certo, c'è sempre da considerare la Davis: due di loro l'hanno vinta e gli altri hanno la possibilità di farlo tra due mesi scarsi. Ma l'Insalatiera, per quanto importantissima e necessaria per dare prestigio e completare qualsiasi palmares (chiedere a Federer per informazioni) è una competizione a squadre, non è una vittoria solo tua. E questa è una gran bella differenza.
IL RESTO DEL MESE IN PILLOLE
Mi sono decisamente dilungato sul tema e devo necessariamente comprimere il resto. Dopotutto, a settembre non è che sia poi successo molto altro. Un torneo che non c'è stato (Tel Aviv, cancellato per la precaria situazione politica della zona), la decima finale persa da Benneteau, sempre più Hubert Strolz del tennis, le ennesime sconfitte onorevoli di Bolelli, a Flushing Meadows (era ancora il mese di agosto, piccola licenza) e in Davis. Piace, diverte, a tratti esalta, ma alla fine vince sempre l'altro; è la costante di una carriera e siamo sempre qui a parlare di rimpianti. E' pur vero che ad inizio anno la sua classifica aveva tre cifre, ma ci aspettiamo da lui obiettivi più prestigiosi della qualificazione al Master dei Challenger. E, a forza di perder treni, si finisce per restare a piedi.
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