Il mese dell’erba ha confermato che il ricambio generazionale passerà da Raonic e Dimitrov, cui si è aggiunto Nick Kyrgios. Rituali e anacronismi della stagione verde sono necessari nell’ecosistema tennistico.

Di Massimo Garlando – 9 luglio 2014

 

Dunque, dove eravamo rimasti?

con il riepilogo di maggio, nel bel mezzo di Roland Garros, c'era ancora nell'aria il sapore delle sliding doors di Roma, dove i giovani rampanti Raonic e Dimitrov avevano fatto accarezzare l'idea di essere davvero vicini a un poderoso ricambio generazionale nel tennis maschile, per poi essere ricacciati indietro dalla vecchia guardia, chi con qualche rimpianto (il canadese), chi in modo più brutale (il bulgaro). E' passato un mese, a Parigi è andata in scena una restaurazione morbida ma implacabile (millesimo titolo per Nadal, tre Fab Four su quattro in semifinale, il solo Gulbis a rappresentare la novità; ma, trattandosi del lèttone, sappiamo bene che una rondine non fa primavera), mentre a Wimbledon il moto rivoluzionario è tornato alla carica con rinnovato vigore, anche se l'esito finale è stato più o meno lo stesso. I leader sono i soliti, stavolta a parti invertite, Dimitrov a un passo dal quinto set con Djokovic (dopo aver schiantato Murray) e Raonic, solidissimo e impeccabile per tutto il torneo ma annullato senza pietà da Federer. Ma questa volta, alle loro spalle, con la rumorosa vittoria di Nick Kyrgios (del quale avevamo parlato nel riepilogo australiano di gennaio) contro Nadal, ha dato un segnale forte di presenza anche la generazione successiva, quella dei teenager, quasi a dire alle non più giovanissime promesse "datevi da fare e fatelo in fretta, perché tra poco tocca a noi". Quindi, in attesa di nuove controprove sul cemento americano, si può temporaneamente concludere che i giovani iniziano a sgomitare sempre più forte e i vecchietti faticano, ma mostrano di non avere nessuna intenzione di mollare l'osso. La cosa si fa decisamente interessante. Detto questo, torniamo allo schema classico del riepilogo mensile. A parte i primissimi giorni dedicati agli ultimi atti dello Slam parigino, giugno è il mese dell'erba. E di erba qui si parlerà, quasi esclusivamente.

LA SCENOGRAFIA
Confessatelo. Se siete vagamente nostalgici di gesti bianchi, il collegamento del lunedì con il Queen's Club è irrinunciabile. La terra rossa, con i suoi superuomini e scambi infiniti, lascia il posto a quello che, a prima vista, è talmente diverso da sembrare un altro sport, dove di solito arriva un vincente entro il quinto-sesto tiro e scendere a rete non è un'eresia. Se poi capita di assistere ad un tie break come quello tra Feliciano Lopez e Stepanek (per menzionare una partita tra la dozzina circa di equivalenti, e mi fermo al pre-Wimbledon), c'è il serio rischio della sindrome di Stendhal. La cornice è perfetta, grazie alle inconfondibili finestre del club con vista sul Centrale, e la sensazione è quella di una boccata d'aria fresca, quasi come quella del primo quindici di Doha dopo il forzato digiuno dicembrino. Certo, c'è la possibilità che a rovinare tutto arrivi la pioggia, ma anch'essa fa parte dell'arredamento, come le fragole di Wimbledon o la streaker che interrompe la finale.

 

I PERSONAGGI
Con l'inizio della stagione erbivora, tornano d'attualità nomi di giocatori che nel resto dell'anno, al più, possono essere ripescati a fatica nelle qualificazioni dei tornei di seconda schiera: Bemelmans, Bozoljac, il figlio di Amritraj, qualche vecchia gloria come Guccione, oltre al classico codazzo di inglesi di seconda fila. Costoro hanno una caratteristica peculiare: sono unanimemente considerati pericolosissimi specialisti dell'erba, anche se quando va bene passano un paio di turni nei challenger. Quest'anno il loro profeta (rastafariano) incontrastato è stato Dustin Brown, capace di alimentare le fantasie di tutti i feticisti del verde battendo (anzi, demolendo) Nadal ad Halle, per poi sciogliersi come neve al sole al primo turno di Wimbledon, dov'era attesissimo, di fronte a quella vecchia volpe di Marcos Baghdatis. Un mio amico, non ho mai capito se più agassiano o anti-samprasiano, li definisce "mummie". Ogni anno, dopo il sorteggio del tabellone del challenger di Nottingham, ne celebra la puntuale uscita dal sarcofago. Io invece preferisco ripensare alle mie serate di fine maggio da studente universitario, quando tutti gli anni ai tavoli dei Caffè di via Po compariva una coppia di anziani signori, con l'acconciatura e l'abbigliamento dei tempi di Cavour, ed ivi stazionava fino agli ultimi tepori di settembre, sparendo poi esattamente com'era arrivata. Come loro, anche gli erbivori di giugno che vengono ibernati dopo Newport saranno vagamente anacronistici, non lo metto in dubbio, ma simpaticamente pittoreschi e per me essenziali, nell'ecosistema tennistico.

I CAMPI
Ogni estate a Wimbledon c'è un dilemma estivo: se l'erba è erba o l'erba è terba. Gruppi di appassionati organizzano seminari di Google Earth applicato al mosaico interattivo di Sky per misurare la lunghezza dei fili verdi e stabilire che, forse, il Centrale è leggermente più lento rispetto agli ultimi tre anni, mentre i campi laterali sono veloci come nel 1987. Ovviamente ciascuno porta acqua al proprio mulino, quindi i federeriani trovano la superficie lentissima, mentre i nadaliani la vedono leggermente più ingiocabile del parquet paraguayano dei tempi di Victor Pecci. E' il normale gioco delle parti. Ora, cercando di essere il più obiettivo possibile, è chiaro che la superficie è molto diversa all'inizio del torneo rispetto alla seconda settimana, quando la tenera erbetta che ricopre i campi, a forza di essere calpestata, si dirada. E' la natura, così l'uomo inventò i sentieri; così succedeva nelle scuole calcio di quand'ero ragazzo e le squadre hanno risolto il problema trasformando i campi in erba sintetica. Non credo che i puristi auspichino la medesima soluzione.

Tra l'altro, in materia, la tecnologia ha mostrato un senso dell'umorismo molto inglese, se si pensa al grafico dell'hawk-eye e delle statistiche al servizio, che all'inizio della seconda settimana mostra l'erba arata come nella realtà.

L'ABITO BIANCO
La sacralità del Tempio, quest'anno, è stata messa a dura prova. Ammesso e non concesso che non sia andato a buon fine il proposito, espresso da Fognini, di fumarsi l'erba tanto cara al supervisor, ci ha pensato Marc Lopez a osare l'inimmaginabile, scendendo in campo con un paio di calzini neri ed abbattendo uno dei tabu più inviolabili dei sacri prati: il total white. Magari la fidanzata odia il calzino bianco corto e glielo ha vietato. Si sa, dietro un grande uomo che passa alla storia c'è sempre una grande donna.

L'INTRUSO
Avevo promesso un riepilogo quasi esclusivamente dedicato all'erba. Ecco il quasi: giugno è anche il mese della maturità e quest'anno, insieme agli altri candidati, il passaggio è toccato anche a Gianluigi Quinzi. Lo ha superato, senza scorciatoie, come ha tenuto più volte a precisare; probabilmente la matematica non sarà mai il suo mestiere, se lo sarà ripetuto la notte prima degli esami, ripensando ai due rapidi set con i quali due anni fa liquidò la nuova stella Kyrgios nel torneo junior. Glielo auguro, intanto fermandosi per rispettare come si deve gli obblighi scolastici ha dimostrato di avere testa. E la testa, nel tennis, è fondamentale, non meno del braccio.