THE MAGAZINE – Obbligato alla sedia a rotelle nel 1976 da un grave incidente sugli sci, Brad Parks decise di portarla su un campo da tennis, fregandosene della diffidenza della gente. Quarant’anni più tardi ha vinto lui: il wheelchair tennis è uno degli sport paralimpici più rinomati, dopo una vita dedicata a battaglie tecniche, organizzative e sociali. Anche contro chi gli disse che stava solo sprecando il suo tempo…

Fino all’estate del 1992 Brad Parks e Randy Snow non si volevano per niente bene. Anzi, pare si stessero decisamente sulle scatole. Ma il potere delle sport e delle Olimpiadi, come si sente spesso, può fare miracoli. Come il selfie fra un’atleta della Corea del Sud e una collega della Corea del Nord che ha fatto il giro del mondo nei giorni scorsi, o – ai tempi di rullini e pellicole – uno scatto che ritrae fianco a fianco i due più grandi atleti (di allora) del tennis in carrozzina, con la stessa medaglia d’oro al collo. Erano le Paralimpiadi di Barcellona 1992, e c’era uno sport da mostrare per la prima volta alla gente, una novità da mettere in tavola nel miglior modo possibile, per far capire che il tennis poteva funzionare anche se le gambe poggiavano su una sedia a rotelle, e i servizi partivano da seduti. Quel modo era una solo: mettere insieme almeno per una volta Parks e Snow, il McEnroe e il Lendl del tennis in carrozzina, per formare la miglior coppia possibile da offrire agli spettatori, nel nome di una maggiore diffusione del wheelchair tennis. Dopotutto, le possibilità erano solamente due: continuare a odiarsi in un piccolo orticello, oppure sacrificare un pizzico d’orgoglio ma dare una scossa fondamentale al proprio sport. Vien da pensare che McEnroe e Lendl avrebbero scelto la prima strada, ma fortunatamente Park e Snow hanno optato per la seconda. Ci teneva troppo, il buon Brad, alla diffusione del suo gioiellino, così ha allungato la mano. Snow ha accettato l’invito e al Centre Municipal Tennis Vall d’Hebron  è venuto fuori il miglior evento di tennis in carrozzina che memoria ricordi, con 6.000 (seimila!) persone  in tribuna per le finali. Per Parks è stata la fine di una carriera che l’ha visto in vetta al circuito dal 1980 al 1989, per il suo sport l’inizio della consacrazione internazionale, sedici anni dopo la comparsa delle prime carrozzina su un campo da tennis.

Era il 1976, e nella California del Sud un Parks diciottenne si dilettava col tennis, ma nel suo futuro c’era il freestyle sugli sci, fino al maledetto 17 gennaio. Si stava allenando per una gara nello Utah, quando durante un backflip, il cosiddetto “giro della morte”,  cadde rovinosamente. «Era un inverno strano – racconta – perché nonostante fosse gennaio c’era pochissima neve, così ne tolsero un po’ dal punto di atterraggio e la utilizzarono per la rampa di lancio. Prima di partire mi dissi che dovevo stare molto attento per evitare di atterrare nel punto con meno neve. Avevo fatto dei backflip centinaia di volte, ma quel giorno qualcosa andò storto. Forse presi troppa velocità, e finii per compiere un giro e mezzo, cadendo di schiena proprio in quel punto. Mi accorsi subito di aver combinato qualcosa di grave, perché non riuscivo a sentire le gambe». Da quel pomeriggio l’americano vive su una sedia a rotelle: una nemica che è presto diventata la più grande opportunità della sua vita. «Dopo che mi era stato detto che non avrei più potuto camminare , nel periodo di riabilitazione al Rancho Los Amigos center ho avuto un sacco di tempo per riflettere su cosa potessi ancora fare, e cosa no, nella mia situazione. Mi divertiva giocare a tennis, così ho immaginato di farlo in carrozzina, e appena ne ho avuto l’occasione ho provato. Cercavo uno sport che mi permettesse di giocare con i miei amici, e ho capito subito che poteva essere quello giusto, anche se nessuno pensava fosse possibile giocare su una carrozzina».

Per sua fortuna, Brad ha incontrato presto Jeff Minnebraker, un medico che praticava vari sport in carrozzina, ed era interessato al tennis proprio come lui. «Ha avuto l’idea di giocare con due rimbalzi, e ha iniziato ad armeggiare nel suo garage per progettare delle carrozzine più leggere e facili da maneggiare. Il resto è storia». Una storia che porta la sua firma, come un Maggiore Winfield del wheelchair tennis, uno dei pochi sport per diversamente abili che ad alti livelli si può praticare di professione, visti i guadagni adeguati  (chiedere a Gordon Reid, vincitore del singolare a Wimbledon, che ha incassato un assegno da 25.000 sterline). «Non avrei mai pensato – racconta – che il wheelchair tennis potesse far parte delle Paralimpiadi o dei tornei del Grande Slam, figurarsi che avesse un posto nel rulebook dell’ITF». Invece, è stato il primo sport in carrozzina a entrare a pieno titolo nella relativa Federazione mondiale, prima come un asterisco nei regolamenti e poi come una sezione vera e propria, e nel 2018 festeggerà il ventennale sotto il tetto dell’ITF. «Più di un sogno», come lo definisce Parks, che dagli 11 tornei del primo Wheelchair Tennis Tour, targato 1992, è cresciuto fino a un circuito molto simile a quello dell’ATP, sponsorizzato da UNIQLO (gli stessi a fianco di Novak Djokovic) e con più di 150 appuntamenti internazionali sparsi in 40 paesi del mondo, con oltre 2 milioni di dollari distribuiti in soli montepremi. Uniche differenze? I due rimbalzi e il “wheel fault” al posto del “foot fault”. Per il resto cambia zero.



Ma in mezzo ci sono state una miriade di difficoltà. Tecniche, per realizzare delle carrozzine il più adatte possibile al tennis (risolte con l’apertura da parte dello stesso Parks dell’azienda  “Quadra”), logistiche, per far conoscere la disciplina con tutti i problemi di comunicazione dell’era pre-internet, e pure sociali, per superare la diffidenza della gente nei confronti delle carrozzine, specialmente in un tennis ancora molto elitario. Come quando nel  1980, nel corso della serata di lancio dei Campionati statunitensi di sport di carrozzina, un uomo con grande esperienza nel mondo dello sport per diversamente abili, avvicinò Parks e lo gelò con poche parole. «Per la sua tesi universitaria aveva effettuato uno studio su quali sport potessero funzionare per i disabili e quali no, e il tennis, per lui, faceva parte della seconda categoria. Disse che nel tennis sono fondamentali gli spostamenti laterali, impossibili per una carrozzina, e che stavo solo sprecando il mio tempo. Ero un ragazzo giovane, ma credevo veramente in quello che stavo facendo e nella possibilità di giocare e divertirsi anche in carrozzina. Nei giorni successivi pensai a lungo a quello che mi aveva detto: per noi era tutto nuovo, non sapevamo come poteva andare a finire, e quella chiacchierata mi scoraggiò». Ma per fortuna non lo distolse dal suo grande obiettivo, finendo per motivarlo ancora di più.

Parks e Minnebraker iniziarono a portare il wheelchair tennis in giro per gli Stati Uniti, con delle clinic sportive ma anche sociali, per sconfiggere scetticismo e luoghi comuni. «All’inizio pensavamo sempre che ci avrebbero sbattuto fuori dai campi da un momento all’altro, ma passo dopo passo siamo riusciti a superare tutte le barriere». Spiegavano il tennis in sedia a rotelle, mostravano che si poteva praticare ad alti livelli, e lo vedevano  crescere giorno dopo giorno. «Ricordo che in una delle nostre prime esibizioni, durante un torneo professionistico, incontrai  John Newcombe. Mi chiese se mi andasse di fare qualche scambio con lui, poi mi invitò ad organizzare qualcosa insieme in Australia, e fu in quel viaggio che incontrai mia moglie Wendy». Nel 1980 è nata la National Foundation of Wheelchair Tennis (NFWT), con un circuito di dieci tornei che culminava con gli Us Open wheelchair tennis championships, in California. Otto anni dopo è stata la volta dell’International Wheelchair Tennis Federation (IWTF), con Parks presidente, e della presenza ai Giochi Paralimpici di Seoul come sport dimostrativo, antipasto all’inserimento vero e proprio di Barcellona ‘92. Poi è arrivata l’introduzione nella USTA, quindi quella nell’ITF.

«Capimmo di aver fatto qualcosa di importante quando per giocare i tornei negli States arrivava gente dall’Europa. Durante uno di quei tornei, guardando fuori dalla finestra, vidi un centinaio di giocatori in sedia a rotelle, tutti vestiti da tennis, ben altra cosa rispetto a quando agli inizi giocavamo con dei normali jeans su delle carrozzine da ospedale. Pensai qualcosa come: ‘mi dispiace, cari scettici, ma questo è tennis’. Lo ricordo come fosse ieri. La mia vita dedicata a questo sport è ricca di momenti splendidi, ma ciò che mi tengo più stretto sono le tante amicizie costruite in 40 anni. Avere così tanti amici in ogni parte del pianeta mi riempie d’orgoglio, e oggi lo apprezzo molto più che allora. Guardandomi indietro, l’unica cosa che posso dire è che mai avrei pensato che il tennis in carrozzina sarebbe arrivato fin dove è oggi».

Dal 2010 Bradley Alan Parks è nella Tennis Hall of Fame, lo scorso maggio ha ricevuto dall’ITF il Philippe Chatrier Award, riconoscimento che dal 1996 viene assegnato ogni anno a chi contribuisce allo sviluppo del tennis, e sempre l’ITF gli ha intitolato il Brad Parks Award, premio assegnato a persone o organizzazioni che lavorano per la promozione del tennis in carrozzina. «Steve Jobs aveva ragione quando disse che la vita è breve, quindi non bisogna perdere tempo a vivere quella di qualcun altro. E non bisogna permettere al rumore delle opinioni altrui di coprire la propria voce. La cosa più importante è avere il coraggio di seguire il proprio cuore e le proprie intuizioni. Tutto il resto è secondario». Proprio come le parole di quell’esperto di sport in carrozzina, secondo cui il tennis su sedia a rotelle non poteva funzionare. «Anni dopo ci siamo rivisti e siamo diventati buoni amici. E sì, ha ammesso che aveva sbagliato tutto».