L'OPINIONE – La crescita umana di Novak Djokovic affianca quella tennistica. Oggi è un degno numero 1, grande ambasciatore del nostro sport. Sa di essere un esempio e ha trovato un pozzo senza fondo di motivazioni. Piano piano, la gente inizia a capirlo… 

Non era necessario guardare la partita. Per capire chi avrebbe vinto l'Australian Open era sufficiente osservare il linguaggio del corpo di Novak Djokovic ed Andy Murray. L'episodio numero 31 della loro rivalità ha certificato un dato sempre più evidente: Djokovic non gioca a tennis meglio di Murray. Per carità, fa meglio alcune cose, ma nel complesso il loro livello è piuttosto simile. La differenza, enorme, è sul piano mentale. Mentre Murray digrignava, diceva parolacce, spendeva energie inutili manifestando i suoi stati d'animo, Djokovic è rimasto tranquillo e impeccabile anche quando la furia agonistica dello scozzese lo aveva quasi ripreso, sia nel secondo che nel terzo set. Senza nulla togliere ad Amelie Mauresmo, il cui lavoro è più che dignitoso, si avverte l'assenza di Ivan Lendl nel clan Murray. Al netto dell'operazione all schiena di fine 2013, è un dato di fatto che il miglior Murray sul piano mentale si sia visto con Lendl. C'era l'ex numero 1 al suo angolo quando ha vinto Us Open, Wimbledon e Olimpiadi. Guarda un po', tornei in cui ha sempre battuto Djokovic (due finali e una semifinale). Uscito di scena Lendl, abbiamo rivisto un Murray un po' disordinato, arruffone. Indegno di diventare il numero 1 del mondo. Frase un po' forte, da spiegare. Murray è un grandissimo giocatore, vale quando Djokovic sul piano strettamente tecnico. Ed è un buon esempio di condotta fuori dal campo: investimenti mirati, matrimonio, imminente paternità, legame con la famiglia, sincera passione per il tennis…con il solo vizio della Playstation, che aveva rischiato di fargli perdere l'amata Kim Sears. Ma sul campo, tuttavia, non è sempre impeccabile. Partendo da una base quasi identica, Djokovic gli ha rifilato un paio di secondi al giro e ormai lo ha doppiato. Lasciando perdere il primo set (“Non mi funzionava il dritto” ha detto Murray), il secondo e il terzo sono stati estremamente equilibrati. Ma il modo in cui i due reagivano ai punti, sia vinti che persi, era rivelatore.


RISPETTO PER IL PROPRIO RUOLO

E' giunto il momento di inserire Novak Djokovic nell'affascinante quanto fittizia corsa al GOAT. Il serbo ha raggiunto una maturità e una consapevolezza impressionanti. Il suo cannibalismo tennistico è sotto gli occhi di tutti. Ma c'è un'altra dote, meno evidente ma altrettanto fondamentale: il RISPETTO per il suo ruolo. Essere il numero 1 in una disciplina come il tennis comporta tanti onori, ma anche un mucchio di oneri. Djokovic lo ha capito e ha trovato la chiave per diventare una grande persona, mettendo da parte il ragazzino un po' spavaldo di inizio carriera, quando si scriveva il nome a pennarello sulle scarpe per scimmiottare Nadal, e poi lo imitava (insieme a tanti altri) negli spogliatoi. Si è reso conto che per diventare un leader doveva cambiare registro. E così, oltre al duro lavoro sul campo per raggiungere e superare Roger Federer e Rafael Nadal (missione compiuta), ha svolto un'operazione di pulizia della sua immagine. Ad esempio, non crediamo che il Djokovic di oggi registrerebbe un videomessaggio da trasmettere in piazza a Belgrado, dicendo che il Kosovo “è serbo” (tra l'altro, qualche mese fa la federazione kosovara si è affiliata all'ITF). Anzi, quando gli hanno fatto una domanda scivolosa nella conferenza stampa post-Murray, è stato molto attento a evitare certi argomenti. “Se prenderei più voti dell'attuale presidente? Non mi interessa, io sono un atleta e non ho nessuna ambizione politica”. Ha capito che il suo ruolo è un altro.


 
NIENTE ARROGANZA

Quando gli hanno chiesto cosa lo abbia reso così vincente, quasi imbattibile, non ha ceduto all'aneddotica. “Se fosse così facile tutti potrebbero imitarmi. E' il risultato di un processo molto lungo: anni di sacrifici e impegni, non solo sul campo, ma anche gli obblighi di un tennista. Un vero e proprio stile di vita. Devi dedicare tutto il tuo tempo a cercare di diventare una persona e un giocatore migliore”. Djokovic è convinto che non si possano separare vita privata e vita professionale. “Per nulla. Sei sempre la stessa persona: se hai problemi nella vita privata li devi affrontare e risolvere, anche per massimizzare il potenziale come giocatore. Magari non funziona per tutti, ma è una cosa che mi ha aiutato a essere migliore”. E poi ci sono dei compiti da rispettare: il numero 1 del mondo è il supremo ambasciatore del tennis. Djokovic sente molto il ruolo e si dedica con grande impegno sia nel pubblico (è sempre molto cordiale e completo nelle interviste) che nel semi-privato (il suo impegno con Unicef, di cui è ambasciatore globale, gli fa onore). Dieci anni fa, dopo essersi ritirato per problemi alla schiena dopo il famoso match con Nadal a Parigi, disse che “senza infortuni avrei tranquillamente potuto vincere”. Oggi gli hanno chiesto se il divario tra sé e gli altri big sia aumentato. La sua risposta, scrostata dell'ovvia diplomazia, è un capolavoro. “Non posso permettermi di pensare certe cose. Se lo fai diventi arrogante e credi di essere migliore degli altri. E il karma potrebbe punirti molto presto. Non voglio che accada. Io mantengo la mia routine, provo ad essere umile e gestire i miei successi in modo discreto”.


 
IL ROLAND GARROS COME DESSERT

Poche parole, tanti fatti, grande rispetto per la storia. Vincendo l'undicesimo Slam ha raggiunto Rod Laver e Bjorn Borg. Adesso punta dritto ai 12 titoli di Emerson (eguagliato nei 6 successi all'Australian Open), ai 14 di Nadal e Sampras…e magari anche ai 17 di Federer. Sa che chi si ferma è perduto. “Se sono qui non è perché gioco come l'anno scorso. La verità è che gioco un po' meglio perché ogni giorno mi sforzo per migliorare, sia tatticamente che tecnicamente. I record? Ammetto che ci ho pensato, avrei potuto scrivere un pezzo di storia. Quando sono sceso in campo, la possibilità di eguagliare certi campioni era in fondo alla mia mente”. A missione compiuta, Nole guarda già al futuro e ha trovato il tempo per fare il filosofo. “Ho sentito una metafora che mi piace molto. Il lupo di montagna, che sta effettuando la scalata, ha un compito molto più difficile ma ha anche molta più fame del lupo di collina. Chi è indietro in classifica lotta duramente per salire al numero 1, ha una gran fame. Io non posso permettermi di rilassarmi e divertirmi: magari lo farò per qualche giorno, ma poi devo pensare al futuro. Quando sei in cima, devi lavorare il doppio”. Djokovic è un'evoluzione di Jim Courier: anni fa, il rosso di Dade City disse che la corsa al numero 1 era come la caccia alle ragazze: “il corteggiamento è la parte più divertente”. Una volta raggiunto l'obiettivo, è ovvio perdere un pizzico di motivazione. Ecco, Djokovic l'ha trovata anche dopo la conquista. E la sua ultima frase è chiara, quasi una minaccia: “Al Roland Garros sarò un lupo molto affamato. Ma un lupo ha bisogno di tanti pasti prima di arrivare a Parigi. Il Roland Garros sarà soltanto il dessert”. In un periodo molto delicato, in cui il sottobosco del tennis ha mostrato la sua parte peggiore, Novak Djokovic è un degno numero 1. La gente ha iniziato a capirlo, tributandogli un rumoroso abbraccio collettivo fuori dalla Rod Laver Arena, nel bel mezzo della notte australiana. Gente senza biglietto, rimasta lì solo per lui. Certe scene si vedevano solo a Wimbledon.