Quando lo hanno spedito negli Stati Uniti per uno scambio culturale, Marco Filippo Pozzoni ha cambiato prospettive. Gli si è aperto un mondo, ha capito che l'Italia gli stava stretta. Buon agonista con vocazione da maestro, ha iniziato a insegnare nella sua Milano, poi la grande decisione: a 25 anni di età si è trasferito in Australia, a cercar fortuna con una racchetta in mano. In una settimana ha trovato lavoro, due anni dopo faceva da sparring partner a due ragazzini promettenti: Nick Kyrgios e Thanasi Kokkinakis. Marco si è poi realizzato a Dubai: tante ore in campo, un ruolo di responsabilità e – di tanto in tanto – qualche top-players che si allena nel campo accanto al suo. Il sogno restano gli Stati Uniti, ma l'Italia è sempre nel cuore. “Ma oggi non potrei tornarci per lavorare: appena varchi il confine, è tutto un altro mondo”.
Come ti sei avvicinato al tennis? Che livelli hai raggiunto?
Sono nato e cresciuto a Milano. Ho giocato per 10 anni presso lo Junior Tennis Milano, dopodiché ho svolto la mia prima esperienza all'estero: mi sono trasferito per un anno negli Stati Uniti, a Las Vegas, come “exchange student”. Ho giocato a tennis anche lì, pur senza tentare la via del professionismo. Al rientro in Italia ho smesso per un paio d'anni, poi mi sono riavvicinato grazie alla società che gestiva il Malaspina Tennis Club: feci una specie di praticantato, poi mi offrirono un lavoro a tempo pieno. Sono rimasto lì per circa tre anni, fino a diventare Istruttore di 2° Grado. Lo sono ancora oggi: vivendo all'estero, non ho la possibilità di fare ulteriori esami. A livello nazionale, ho raggiunto la mia miglior classifica quando c'era ancora il vecchio sistema: sono stato al massimo C1.
Come ti trovavi a lavorare in Italia?
Avevo 21 anni, come primo lavoro andava più che bene. Il fatto è che non ho mai visto l'Italia come un punto d'arrivo, ma solo come un punto di partenza. La mia prima esperienza all'estero mi ha “aperto un mondo”. Ho sempre avuto il desiderio di tornare negli Stati Uniti, lavorarci e magari restarci a vivere. L'Italia mi stava stretta: per questo, nel 2010 sono andato in Australia. Sono rimasto a Melbourne fino a fine 2013: avevo con me solo racchetta e valigia, ma cinque giorni dopo avevo già trovato lavoro. È stato fondamentale, perché la referenza mi è tornata utile per i lavori successivi. Ho lavorato in due club, entrambi in zone benestanti. Erano gestiti dalla stessa società e io ero a capo di uno dei due. Facevo l'head coach, nonché amministrazione, marketing e pubbliche relazioni con i clienti. Dopo un anno e mezzo ho svolto l'esame come maestro della federtennis australiana, poi ho avuto la possibilità di fare da sparring partner a due ragazzini molto promettenti, all'epoca sconosciuti: Nick Kyrgios e Thanasi Kokkinakis. Ogni volta che avevano bisogno, Tennis Australia mi convocava a Melbourne Park, sede dell'Australian Open e di un'accademia internazionale. A proposito: nel 2008, durante il torneo dell'Avvenire ebbi la possibilità di fare da sparring a una ragazzina di 13 anni: perse al primo turno, ma aveva già un contatto con Nike e Wilson, da oltre un milione di dollari. Si chiamava Madison Keys.
Non hai mai pensato di intraprendere la carriera da sparring partner?
Sì, ma non mi è mai arrivata un'offerta concreta. Conosco bene ragazzi come Fabrizio Ornago (oggi top-500 ATP), Stefano Ianni e Marco Crugnola: sono sempre stato affascinato dalla loro attività, ma non ho mai avuto la chance di farlo a tempo pieno. L'insegnamento ai ragazzini è sempre stato il mio punto di riferimento. Se ci fosse l'occasione di seguire un professionista, con una remunerazione adeguata, ci farei un pensiero.
Come mai sei tornato in Italia dopo tre anni e mezzo in Australia?
L'Australia è splendida, ma è davvero lontana. Mi mancava la famiglia, gli amici iniziavano a mettere su famiglia… stare così lontano iniziava a pesarmi. Il club per cui lavoravo mi aveva già offerto la possibilità di rimanere, andava alla grande, ma è stata una scelta mia. Sono rimasto a casa due mesi, poi ho ricevuto una proposta da Shanghai: non mi entusiasmava, ma pochi giorni dopo è arrivata quella di Dubai e l'ho presa al volo.
Che differenze hai riscontrato tra Italia e Australia? Consiglieresti un'esperienza del genere?
Sicuro, perché apre orizzonti nuovi. Inoltre aiuta a conoscere se stessi e le proprie capacità, sul come cavarsela da soli. Stare così lontano ti mette alla prova, per davvero. Sul piano lavorativo, andare all'estero ha un grosso valore. Hai credenziali maggiori e scopri che il “giro” del tennis è abbastanza piccolo, molte accademie si conoscono e comunicano tra loro. Significa che le referenze sono ben accette, soprattutto se hai lavorato in paesi anglosassoni. La conoscenza della lingua inglese è un aspetto basilare. Io ho la fortuna di non avere neanche l'accento italiano: aiuta tantissimo. Non fosse stato per il mio inglese, non so quanto avrei potuto resistere, soprattutto nella ricerca del lavoro. Ho avuto fortuna, devo ringraziare i miei genitori che hanno pianificato molto bene la conoscenza della lingua straniera.
Nel 2014 arrivi a Dubai. Di cosa ti occupi esattamente?
Abbiamo quattro club: tre funzionano a tempo pieno, l'altro è stato appena aperto. Siamo tre head coach, ognuno responsabile del suo circolo. La giornata inizia alle 7 e spesso finisce alle 22. Trascorro gran parte del mio tempo in campo, ma faccio anche amministrazione: contatto i clienti, chi vuole fare lezioni private e chiunque voglia giocare: bambini, adulti, famiglie, gruppi… insomma, devo fare un po' di marketing e tenere contatti con la clientela. Inoltre realizzo i vari programmi settimanali, in modo da avere una tabella di marcia perfetta e funzionante per tutti.
Quali aspirazioni hai per il futuro?
Mi piacerebbe aprire qualcosa di mio. Attualmente sto in campo dalle 7 alle 10, pausa fino alle 14.30, poi riprendo alle 15.30 fino alle 22 circa. Lo faccio cinque giorni e mezzo a settimana. Aprire un'accademia, anche piccola, sarebbe un buon inizio. Non ho ancora deciso come e dove. Potrei aprirla a Dubai, dove però la vita è più cara rispetto a 3-4 anni fa. È importante scegliere una zona che possa dare i suoi frutti. Sono molto fortunato a lavorare in una società che opera laddove vivono il 90% degli expats, quasi tutti occidentali. Il tennis viene visto come un'attività quotidiana. Inoltre sono anche giornalista, quindi chissà che in futuro non possa fare qualcosa nel settore. Ad esempio, mi piacerebbe molto lavorare in radio.
Un tempo, il tuo sogno era la Florida. Lo è ancora?
In parte. In questo momento, non vedo gli Stati Uniti come un posto adatto a un progetto lavorativo. In passato ho ricevuto alcune proposte, anche interessanti, da accademie internazionali frequentate da giocatori di college. Tuttavia, non ho mai avuto il coraggio di accettare. So bene che negli Stati Uniti c'è qualche complicazione con i permessi: non è semplice entrare e rimanerci con un visto che dia un minimo di sicurezza per 3, 4, 5 anni. Dubai è spuntata dal nulla: i contratti sono buoni, la qualità della vita è molto alta, c'è una notevole sicurezza. Per il momento, il sogno Florida è stato un po' messo da parte. Tuttavia, gli Stati Uniti restano il mio obiettivo finale: Florida o California.
Com'è la qualità della vita a Dubai? Tennis a parte, consiglieresti di viverci? Un certo Roger Federer ci trascorre molto tempo…
Dubai non è per tutti. Qualcuno la definisce una città superficiale, ma concordo solo in parte. Gli Emirati Arabi sono uno stato molto giovane, di appena 45 anni. Gli expats arrivano da ogni parte del mondo. C'è un mix di culture che io trovo molto affascinante, mentre per altri è quasi fastidioso. Per intenderci: la maggior parte degli abitanti vengono dall'India. Il Paese è stato “costruito” da indiani e pakistani. Poi c'è una bella fetta di expats, la maggior parte britannici. Infine ci sono i locali, che però rappresentano il 5% della popolazione. Io ci sto bene, la trovo molto simile a Las Vegas, ad eccezione del gioco d'azzardo. Per il resto c'è sfarzo, colori… mi sento più o meno a casa. Ma non è paragonabile a qualsiasi città europea. Se si è abituati a uscire e trovarsi in piazza con gli amici, non esiste nulla di simile. La socializzazione avviene nei locali, mentre la vita all'aria aperta è quasi inesistente. C'è qualche passeggiata, soprattutto turistica, e poco altro. È qualcosa che può dar fastidio, ma io mi sono adattato bene. Certo, quando fai una passeggiata sui Navigli e bevi qualcosa con gli amici, fa tutto un altro effetto. A Dubai mancano alcune cose che per motivi religiosi e culturali non ci saranno mai. Consiglio di visitarla, però a livello tennistico ci sono altre città con più appeal.
Segui il tennis professionistico? Avevi idoli o punti di riferimento?
Il mio preferito era Andre Agassi. Mi sono appassionato al tennis grazie a lui, poi ho sempre apprezzato i “cavalli pazzi”, su tutti Goran Ivanisevic e Marat Safin. Tra le donne, riconosco alle sorelle Williams la capacità di aver cambiato le carte in tavola: prima il tennis era talento e lavoro, adesso si è aggiunto il lavoro in palestra. Hanno cambiato tutto. Per ragioni di fusi orari, non vedo molto tennis in TV. Quando ho tempo guardo gli highlights e cerco di tenermi informato, magari anche alla radio. Non è facile: dopo tante ore sul campo viene voglia di prendersi una pausa.
Il torneo di Dubai lo segui?
Sì, praticamente ogni anno. Mi aspettavo una location più grande, a partire dal campo centrale. È organizzato in modo fantastico: ben strutturato, nessuno sgarra, pulitissimo. Trovi i giocatori al tuo fianco al ristorante, ma nessuno si azzarda a essere indiscreto. Per questo, sono molto rilassati. Roger Federer ha il suo quartier generale a Marina Bay, ma da fine novembre in poi è pieno di giocatori che si preparano per la trasferta australiana: se vengono dall'Europa “tagliano” metà del fuso orario, le temperature sono più simili e i campi sono gli stessi dell'Australian Open. Trovare i professionisti nel campo accanto è molto interessante.
Ti manca l'Italia? Ogni volta che ci torni che sensazioni avverti, paragonandola alla tua realtà?
Con l'Italia ho un rapporto di amore-odio, da almeno da 10 anni. Sono venuto l'ultima volta in estate, tra Milano e la Sardegna. Le cose stanno un po' cambiando: è la prima volta che sono tornato a Dubai con un pizzico di nostalgia. Ho 33 anni, i miei amici iniziano a sposarsi e fare figli, i miei sono un po' più anziani… mi piacerebbe restare più a contatto con il mio paese. Tuttavia, non credo che sia il momento giusto per tornare, soprattutto per lavorare. Mi sembra una nazione in crisi, un po' allo sbando… non voglio entrare nel merito, ma appena varchi il confine scopri che è tutto un altro mondo. E allora ti fai delle domande, ti chiedi come mai l'Italia si sia ridotta così. Mi dispiace molto, ma oggi non riuscirei a tornare ed essere felice.
Però la tua situazione attuale a Dubai non sembra definitiva.
No, anche perché a Dubai è molto difficile trovare qualcosa di definitivo. La maggior parte degli expats sono di passaggio. Si fermano al massimo 10 anni, poi tornano nel loro paese. Ma ci sono tante cose buone: niente tasse, sicurezza, ottimi stipendi… quello che guadagno qui, in Italia non potrei neanche sognarmelo. A fine mese si può sorridere, il duro lavoro paga. Forse manca un buon livello agonistico: il tennis non è visto come qualcosa di impegnativo. Si gioca 1-2 volte a settimana, ma non esiste chi si applica tutti i giorni, 3-4 ore al giorno, con preparazione atletica. Queste cose non ci saranno mai, se non a livello privato. Ho un amico che fa da coach a due ragazzi russi, che però sono sponsorizzati da un padre milionario. Capita di trovare famiglie super benestanti che possono permettersi certi lussi, altrimenti il tennis è un'attività da doposcuola per i ragazzini, o per chi lavora e vuole fare un po' di attività fisica.
MARCO FILIPPO POZZONI
Milanese, 33 anni, Marco Filippo Pozzoni si è trasferito in Australia ad appena 25 anni. In meno di un settimana ha trovato lavoro in due club di Melbourne, fino a diventare coach di Tennis Australia. Durante la sua permanenza, ha fatto da sparring partner a Nick Kyrgios e Thanasi Kokkinakis. Tornato in Italia a causa dell'eccessiva lontananza dell'Australian , nel 2014 ha accettato un'offerta da Dubai: oggi lavora in una società, Advantage Sports UAE, che gestisce quattro club. Lui ne gestisce uno e trascorre circa 12 ore al giorno sul campo da tennis.