LA STORIA – Un eroico match di Coppa Davis tranciò la carriera a Malivai Washington. Era n. 24 ATP, ma il ginocchio fece crack e due operazioni al ginocchio non bastarono. Si trascinò per due anni, poi si ritirò. 
Dopo l’infortunio, MaliVai Washington non è mai più tornato quello di prima
 
Di Riccardo Bisti – 20 marzo 2013

 
Scavando nei rifiuti dei ricordi, si trovano storie che è ingiusto lasciare nel dimenticatoio. E allora viene spontaneo restaurarle e riportarle alla luce. Correva l’anno 1997 e gli Stati Uniti dovevano affrontare il Brasile in Coppa Davis. Nonostante fosse finalista di Wimbledon in carica, MaliVai Washington non era tra i convocati. Capitan Tom Gullikson chiamò Andre Agassi, Jim Courier e i doppisti Alex O’Brien e Richey Reneberg. Il match si sarebbe giocato a Ribeirao Preto, su una terra lentissima e un clima terrificante, come ben sanno gli italiani che nel 1992 erano a Maceiò. Prima della trasferta, Gullikson organizzò una sessione di allenamento a Crandon Park, sede del Sony Open al via in questi giorni. Poco prima dello stage, Andre Agassi diede forfait. Era l’anno nero di Andre, quello in cui si sballò con l’amico “Slim” e sarebbe sceso al numero 141 ATP. Allora Gullikson alzò la cornetta e chiamò Washington. “Mi trovavo nell’ufficio ATP di Ponte Vedra – racconta Washigton – e colsi al volo l’occasione. Avevo già giocato un paio di volte, ma con i campioni che mi stavano davanti non avevo grandi chance di giocare in Coppa Davis”. Abbandonato il cemento (si stava preparando per giocare il defunto ATP di San Josè), prese ad allenarsi all’impazzata sulla terra battuta. Il Brasile era guidato da Fernando Meligeni (medaglia di legno alle Olimpiadi di Atlanta, dove perse la finalina contro Leander Paes) e da un giovane che aveva appena fatto il suo ingresso tra i top 100: Gustavo Kuerten.
 
I primi a scendere in campo furono proprio Washington e Kuerten. “L’anno prima avevo sentito parlare di lui. Aveva ottenuto qualche buon risultato ed era entrato tra i primi 100. Ma non sapevo nulla, non l’avevo mai visto giocare. Onestamente, non sapevo chi fosse”. Classificato oltre 60 posizioni indietro a Washington (n. 85 contro n. 24), Kuerten era più abituato alla terra, al caldo e all’umidità. Ed era sostenuto da un pubblico che interpretava la Coppa Davis come una festa di samba. “Entrai in campo un po’ alla cieca. Sapevo che c’erano delle insidie, ma ero convinto di essere un giocatore migliore e che alla fine avrei vinto". Kuerten scese in campo carico come una molla, mostrando quel rovescio a una mano che quache mese dopo gli avrebbe regalato il Roland Garros. Vinse 6-3 il primo e per poco non andava avanti di due set. Con grande fatica, Washington si aggiudicò 8-6 il tie-break del secondo. Anche il terzo giunse al tie-break. Sul punteggio di 5-3 per l’americano, accadde qualcosa di strano. Malivai iniziò a sentire un forte dolore al ginocchio sinistro ("Riguardando le immagini, non sono riuscito a capire cosa fosse successo"). Riuscì a vincere il set, ma aveva il terrore negli occhi. Lo staff medico lo curò con ghiaccio e ibuprofene, consentendogli di andare avanti nonostante il dolore. “I compagni di squadra urlavano per me, non mi sarei mai ritirato. Fosse stato un match del tour, mi sarei fermato di sicuro”. Facendo leva sull’adrenalina, Washington riuscì a vincere 3-6 7-6 7-6 6-3, regalando un fondamentale 1-0 agli States. “Soltanto a fine partita mi sono reso conto di come fosse ridotto il mio ginocchio. Rientrato negli spogliatoi, non ero in grado di accovacciarmi o prendere un oggetto per terra”. Mentre si disperava negli spogliatoi, Jim Courier ingaggiò una dura battaglia contro Fernando Meligeni, portando a casa il match con il punteggio di 3-6 6-1 6-4 4-6 6-4. A quel punto, gli americani erano convinti di chiudere con il doppio. Invece il duo carioca Kuerten-Oncins piego 6-2 6-4 7-5 O’Brien-Reneberg, rimandando l’esito alla terza giornata.
 
Washington avrebbe dovuto giocare l’ultimo match, sull’eventuale 2-2. C’era la certezza-Courier, ma se qualcosa fosse andato storto? Al sabato, scese in campo per testare le condizioni del ginocchio. “Non riuscivo a muovermi lateralmente. Sarò rimasto in campo per cinque minuti. Io e ‘Gully’ decidemmo che il giorno dopo non ci sarebbe stato modo di giocare. Allora andò da Alex O’Brien per dirgli che avrebbe giocato lui”. Se Kuerten avesse sorpreso Courier, il match decisivo lo avrebbe giocato un esordiente, peraltro nella superficie peggiore e contro un pubblico ostile. Quella domenica, Courier giocò come se fosse una finale Slam e riuscì a battere Kuerten con il punteggio di 6-3 6-2 5-7 7-6, aggiudicandosi 13-11 l’ultimio tie-break ed evitando le sabbie mobili del quinto set. Gli States ce l’avevano fatta. Washington lasciò il Brasile con un carico di preoccupazioni per il ginocchio. “Andai a farmi visitare dappertutto: San Josè, Los Angeles, Miami…ma nessuno fu in grado di dirmi quale fosse il problema. Rimasi a riposo per un po’, poi tornai a giocare. Ma non duravo più di due partite. Onestamente, per battermi bastava farmi muovere un po’”. Perse al primo turno a Memphis e Scottsdale, rinunciò a Indian Wells e Miami e poi si ridusse a vincere tre game contro il carneade argentino Martin Rodriguez. “Era aprile. Dissi che non avrei più giocato fino a quando non mi avessero detto cosa avessi a quel dannato ginocchio”. In poco tempo finì sotto i ferri. Gli avevano diagnosticato la condromalacia, una specie di contusione ossea che si sviluppa a causa di un indebolimento della cartilagine sotto la rotula. Anzichè scivolare sopra il ginocchio, la rotula sfregava contro l’osso o il femore. “Subito dopo l’intervento, il medico mi disse che avevo un 30-40% di chance di tornare a giocare a tennis. Fu un trauma, ma non gli diedi peso. Sapevo che con la riabilitazione sarei tornato a giocare”. Ma le 4-6 settimane di riabilitazione diventarono otto mesi, che lo obbligarono a saltare tutto il resto del 1997 (compreso Wimbledon, dove avrebbe dovuto difendere la finale).
 
Tornò a giocare nel 1998, ad Auckland, battendo Marcelo Filippini prima di prendere una stesa da Byron Black. All’Australian Open passò il primo turno ma il ginocchio gli faceva troppo male. Allora decise di ritirarsi prima del secondo turno. “A quel punto temevo che la mia carriera fosse finita. Ti fai otto mesi di stop, giochi due tornei e senti che il ginocchio sta peggio che mai. Visitai altri medici, poi decisi di sottopormi a un’altra operazione”. L’intervento fu effettuato in Colorado dal dottor Richard Steadman. “Fu la stessa operazione precedente, solo da un’altra parte del ginocchio. Una zona adiacente a quella della vecchia operazione”. Dopo altri mesi di stop, tornò a giocare in luglio. Dopo la prima operazione era convinto di tornare ai livelli di prima, dopo la seconda speravo di farcela. Ma ho capito subito che non sarebbe stato possibile”. Nel 1999 ha fatto l’ultimo tentativo, giocando sull’erba di Newport. Perse contro un giovanissimo James Blake, al primo successo in un torneo ATP. Capire che il ginocchio lo avrebbe costretto al ritiro, ad appena 30 anni, fu quasi un sollievo. “Si, perchè negli ultimi due anni la mia vita dipendeva dalle condizioni del mio ginocchio. Con il ritiro, non è più stato così. Certo, ci vuole un po’ di tempo per arrivare ad accettare il ritiro” Oggi Washington risiede a Jacksonville, in Florida (la stessa città dove – curiosamente – si è giocato Usa-Brasile lo scorso febbraio) e si dedica alla MaliVai Washington Kids Foundation, il cui obiettivo è promuovere l’istruzione e un corretto stile di vita tramite la pratica del tennis. “Sto facendo tutto il possibile per far capire ai giovani di Jacksonville l’importanza dell’educazione e regalare loro degli obiettivi che vadano al di là del loro quartiere. Per fortuna, sta funzionando. Abbiamo tanti giovani che stanno ottenendo ottimi successi”. Pur essendo stato finalista a Wimbledon, è più orgoglioso di quanto sta facendo ora che di quella clamorosa impresa. Ha capito di essere stato fortunato, anche se quel ginocchio gli ha massacrato la carriera. Si fosse ritirato in quel match contro Guga Kuerten, probabilmente, sarebbe andato avanti ancora a lungo. Ma ancora oggi è orgoglioso di averlo fatto.