L’ATP 500 di Washington festeggia il miglior campo di partecipazione di sempre, ma non dimentica le sue origini. Nel ‘68 Arthur Ashe confessò a un amico di desiderare un torneo nella Capitale per avvicinare al tennis le persone di colore. Oggi sorriderebbe.Andy Murray, Kei Nishikori e Marin Cilic probabilmente non lo sanno, ma iscrivendosi al Citi Open di Washington hanno fatto un grande regalo al compianto Arthur Ashe. Perché se oggi il circuito passa dalla capitale degli Stati Uniti d’America, il merito (uno dei tanti…) è del primo tennista di colore a vincere un torneo del Grande Slam. Era il 1968, l’anno dell’assassinio di Martin Luther King, e anche lo stesso in cui, passando in macchina da Washington con Donald Dell, capitano statunitense di Coppa Davis, Ashe espresse quello che si è rivelato più di un desiderio. Voleva un torneo professionistico in città, in uno dei tanti parchi pubblici dotati di campi da tennis, per dare una spallata al razzismo e un contribuito all’integrazione. “Voglio che i neri escano di casa per venire a guardare il tennis”, confessò all’amico. Detto, fatto. Insieme al patron John Harris, Dell ha trovato una sede adatta e l’anno successivo ha messo in piedi il torneo, ancora vivissimo a 46 anni di distanza. Di recente è stato promosso ad ATP 500 e si è ritagliato un ruolo sempre più importante nella Us Open Series, il mini-circuitoi che conduce all’ultimo Major della stagione. Una delle tante vittorie di Ashe, che anche dopo i tanti successi che l’hanno reso un’icona non ha mai perso di vista il suo obiettivo numero uno: usare il tennis, e il suo volto, per dare una mano alle tante persone emarginate per il solo colore della pelle. Promise che avrebbe giocato sempre il torneo: l’ha fatto ben undici volte, vincendo il titolo nel 1973. “La vera gioia della vita – disse un tempo – è impegnarsi per aiutare le persone meno fortunate. Se avessi vissuto senza il progetto di aiutare gli altri, non me lo sarei mai perdonato”. Può dire di avercela fatta: a 22 anni dalla sua morte, è ricordato soprattutto per questo.
 
LA SCONFITTA-VITTORIA DEL 1969
Non tutti erano al corrente del fatto che il torneo di Washington debba i suoi natali proprio a lui. Nei giorni dell’edizione 2015, a ricordare le vicende di quegli anni in cui chiedeva invano visti a ripetizione per giocare nel Sud Africa dell’apartheid, si batteva per i rifugiati di Haiti, e per avvicinare al tennis i bambini meno fortunati, è Harold Freeman, grande amico di Ashe. Ebbe i suoi stessi problemi causati dal colore della pelle, e ricorda bene le lotte di Arthur per garantire agli altri un futuro migliore, motivato anche dai soprusi subiti dalla sua famiglia negli anni precedenti. L’attuale sede del torneo americano è una delle più particolari del circuito: l’impianto si trova infatti all’interno del terzo parco più antico degli Stati Uniti. Al John Fitzgerald Kennedy Center di 16th and Kennedy Streets si gioca dal 1972, e Ashe ha lasciato più di una traccia. Per questo, se l’AIDS contratto attraverso una trasfusione di sangue non l’avesse portato via nel 1993, sarebbe contento di trovare, a quasi cinquant’anni da quel desiderio confessato a quello che sarebbe poi diventato il suo futuro manager, di trovare il miglior campo di partecipazione di sempre. Lo dicono i numeri, ma lo può confermare anche Thomas Willis, attuale vice presidente Washington Tennis and Education Foundation (che ha sede proprio nell'impianto) e compagno di doppio di Arthur ai tempi dei tornei giovanili, prima che il collega diventasse il primo numero uno del mondo di colore e vincesse tre tornei del Grande Slam. Ricorda i tempi in cui giocava a baseball con gli amici dove attualmente sorgono i campi del Citi Open, e ricorda anche la caldissima finale del 1969. Fu l’unica della storia disputata al meglio dei cinque set, e Ashe la perse contro il brasiliano Thomaz Koch. Ma vinse comunque. “Circa il 30% degli spettatori erano afroamericani, ma quel giorno tutti tifarono per Ashe”. Bianchi e neri. Ora sembra normalissimo. Al tempo non lo era neanche un po’.