L’addio di Juan Ignacio Chela, che negli ultimi anni si è paragonato alla vecchia automobile argentina. “Non ho alcun rimpianto, ho fatto tutto quello che potevo”. Le battute su Twitter.
Juan Ignacio Chela al Roland Garros 2011, suo ultimo grande exploit
Di Riccardo Bisti – 2 marzo 2012
“Nella vita ho commesso un solo errore non forzato. Fare il tennista”
E’ uno dei tweet più simpatici di Juan Ignacio Chela. A 33 anni, con 14 anni di sudore alle spalle, l’ex “Flaco” ha alzato bandiera bianca. Lo ha annunciato, qualche mese fa, proprio su Twitter. Per anni ha avuto lo stesso soprannome di Cesar Luis Menotti, poi è cambiato qualcosa. Nel 2009, reduce da un’ernia inguinale, era un rottame agonistico. Dopo l’ennesima sconfitta andò dal suo coach e gli disse: “Che vuoi fare, quando hai un Torino è difficile competere con le auto nuove…”. L’allusione era alla mitica autovettura argentina, un vanto di tutto il Sud America…ma mezzo secolo fa. Nel 1969 la spedirono in Europa per gareggiare alla 84 ore del Nurburgring, quando colse un incredibile quarto posto. Tredici anno dopo, nel 1982, la tolsero di produzione. Per le strade di Buenos Aires se ne vede ancora qualcuna, ferrovecchi di un tempo che non c’è più. In fondo anche il tennis di Chela era di quelli che non si vedono più. Un pedalatore tutto testa e regolarità, senza un vero colpo vincente. Un pallettaro che ha saputo aggiornarsi al tennis degli anni 2000 senza stravolgere le proprie caratteristiche. Da “Torino” ha saputo prendersi splendide soddisfazioni. Come nel 2011, quando raggiunse un insperato quarto di finale al Roland Garros. Aveva 32 anni, ultimo baluardo di una generazione di argentini che non c’è più. Dopo la vittoria contro Falla negli ottavi, scrisse “Torino” sulla telecamera. Dopo quel risultato è tornato tra i primi 20 al mondo (era stato n. 15 sette anni prima) ed è diventato numero 1 argentino. E’ stato il coronamento di una carriera vissuta in prima linea, senza squilli ma senza grandi cadute. E quando è scivolato, ha saputo rialzarsi.
Cresciuto nel mito di Pete Sampras (oltre che dei connazionali Hernan Gumy e Franco Squillari), era la seconda linea di una generazione di fenomeni che ha dato gloria al tennis argentino. Guillermo Coria, Mariano Puerta, Mariano Zabaleta, Gaston Gaudio, Josè Acasuso, Guillermo Canas e Agustin Calleri hanno riportato l’Argentina al top del tennis mondiale. Lui era lì, in mezzo al gruppo. Ha rischiato di uscirne nel 2000, quando risultò positivo a un controllo antidopoing. Metiltestosterone. Sarà stato colpevole, o forse no. Sta di fatto che persino Guillermo Vilas si scomodò per andare a testimoniare a suo favore in quel di Miami. Se la cavò con tre mesi e tornò più forte di prima. Gli highlights sono tanti: ancor più dei sei titoli ATP, si ricordano i tre quarti di finale Slam: Roland Garros 2004 e 2011 più lo Us Open 2007. Perché “Torino” aveva imparato a giocare bene anche sul cemento. Ha fatto buone cose soprattutto negli States, con ottimi tornei a Indian Wells e Miami. In totale, è giunto otto volte nei quarti di un Masters 1000. “Era da un po’ che pensavo al ritiro. L'ultimo anno è stato difficile: ho potuto giocare senza dolori soltanto fino a marzo, poi è stato un calvario. L’infiammazione a entrambi i tendini d’achille mi ha messo in difficoltà, ho giocato col dolore e non ho mai recuperato al 100%”. L’ultima partita l’ha giocata a Wimbledon, perdendo 11-9 al quinto contro Martin Klizan dopo 4 ore e 53 minuti. Lascia senza rimpianti. “Ho avuto una carriera molto lunga e – penso – buona. Non penso di aver lasciato nulla in sospeso, ho sempre fatto del mio meglio”. I sogni erano sempre gli stessi: vincere uno Slam, magari la Coppa Davis. “Ma non potevo fare di più, non ho rimpianti”.
In Davis ha giocato la finale del 2006. Vinse il punto decisivo nei quarti in Croazia, battendo Sasa Tuksar al quinto incontro, in un match giocato tra mille paure. Capitan Alberto Mancini lo scelse come secondo singolarista nella finale di Mosca perché aveva buoni precedenti contro Davydenko. Perse in quattro set e il Sogno-Insalatiera rimase tale. Ragazzo tranquillo, benvoluto negli spogliatoi, ha perso la pazienza solo una volta: all’Australian Open 2005, quando sputò addosso a Lleyton Hewitt. “Mi insultava, ho accumulato rabbia e un certo punto non mi importava più nulla”. Perse, ma si prese la rivincita l’anno dopo, sullo stesso campo. Fosse stato italiano, sarebbe stato il più forte dell’era post-Panatta. Invece è rimasto nell’ombra, anche se aveva le stimmate del personaggio. Lo ha dimostrato negli ultimi anni, quando si è distinto con i suoi spassosi post su Twitter. Qui sotto alcuni dei più divertenti.
“Cercherò di prendere una medaglia d’oro. Non assicuro nulla, c’è un servizio di sicurezza imponente”
(In occasione delle Olimpiadi)
“Roger Federer ha la faccia di quelli che inviti a mangiare a casa tua e poi insiste per lavare i piatti”
“Sono superfelice di essermi qualificato per il torneo dei Maestri. Lunedì gioco contro quello di matematica”.
“Retiro o Constitucion?”
(Sono due delle stazioni ferroviarie di Buenos Aires)
“L’anno prossimo perderò meno partite di Federer”
Quando gli hanno chiesto se avrebbe twittato ancora, ha rassicurato tutti. Sarà ancora sui social network, magari ancora più tagliente. Non potrebbe essere altrimenti, soprattutto dopo che ha vinto il premio come “tuitero del ano”, riservato allo user più divertente. E magari si comprerà un auto nuova. O forse no.
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