Parte 1 (clicca qui sopra per leggere gli altri capitoli)
di Cristian Sonzogni
editing Max Grassi – foto Getty Images
‘I’m young, and that’s the problem’. Sono giovane, ed è questo il problema. Probabilmente, in certi momenti, Bernard Tomic vorrebbe già avere trent’anni. Vorrebbe già aver capito come funzionano certe dinamiche, come gestire un padre-coach vulcanico (per usare un eufemismo) che parla tanto e a volte diventa invadente (altro eufemismo), come sopportare la pressione di essere considerato ‘il campione da Slam’ che l’Australia aspetta. Invece Bernard di anni ne ha solo 20.
Un’età che può diventare un problema serio quando giochi a tennis tra i professionisti, sei già tra i primi 40 al mondo, non sei un tipo particolarmente tranquillo, hai personalità da vendere e ti capita di finire sulle pagine dei giornali molto più spesso per ciò che fai fuori dal campo piuttosto che per i tuoi risultati. Così si è letto di Tomic braccato dalla polizia dopo una sorta di fuga a 200 all’ora (“Ho avuto paura”), di Tomic che fa notizia per una fidanzata molto appariscente (“Ma poi ci siamo lasciati”), di Tomic che invita il padre John a uscire dal campo durante un suo match (“Ma adesso è tutto ok, non lo cambierei con nessun altro coach”) e persino di Tomic che rifiuta un allenamento con Lleyton Hewitt (“Ci siamo chiariti”). Tutte notizie che finiscono regolarmente nella sezione ‘curiosità e gossip’ dei giornali, ma che col tennis giocato c’entrano poco.
La prima impressione quando lo senti parlare è di un ragazzo che ha carattere: una cosa che gli sarà utile, nel tennis e nella vita. Curioso mix tra le origini slave della famiglia, la Germania come Madre Patria e l’Australia come terra che lo ha accolto e cresciuto, il giovane Bernard ha gli occhi che riflettono il suo tennis: una sintesi di vivacità e curiosità. Come quando va in campo e cerca di ipnotizzare i rivali con colpi che non appartengono al prototipo del tennista moderno, ma che sono un distillato di talento e coraggio. Qualità che gli sono servite per arrivare nei quarti a Wimbledon due anni fa, il più giovane tra i primi otto ai Championships dai tempi di Boris Becker. Era il 1986.
“Talento? Sì, forse posso considerarmi un giocatore di talento, che non è male se vuoi fare del tennis il tuo mestiere. Però c’è un problema: il lavoro batte il talento, sempre. Così capita spesso che giocatori che si allenano molto abbiano la meglio su quelli più dotati, che inevitabilmente si fidano troppo delle loro qualità. Io non voglio fare questo errore: ho talento, lo so, ma devo lavorare molto. Dovrò essere molto disciplinato nella mia carriera”.
Parte 2
– Hai sempre tante scelte tra cui optare in campo. E’ un bene o un male?
“Non saprei, certo c’è bisogno di tempo per capire qual è il colpo giusto al momento giusto. Però io mi ritengo fortunato, perché penso di imparare rapidamente e capisco il gioco. Se guardate gli altri, il 90 per cento dei tennisti gioca esattamente allo stesso modo. Ecco perché quando trovano uno come me, o come Dolgopolov, vanno in crisi. Perché proponiamo un tennis diverso dal solito. Sono cresciuto cercando di imparare più colpi possibili, più variazioni possibili. Poi da quando frequento il tour dei ‘pro’, ad alto livello quindi, ho imparato ancora di più. So di essere ‘diverso’ dal giocatore moderno, ma sono pronto ad affrontare questa sfida. Penso di avere davanti a me una bella carriera, se la salute mi assisterà. Altrimenti si può sempre passare dal campo alla spiaggia e fare un po’ di surf, no?”.
– Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nel passaggio da junior a professionista?
“Tra i ‘pro’ tutti colpiscono molto forte, servono bene. E soprattutto sanno quando attaccare, e quasi ogni palla appena più corta diventa un punto perso. Personalmente, la difficoltà più grossa è stata capire quando era il caso di accelerare e prendere rischi e quando giocare di contenimento. Anche perché nel Tour maggiore hai sempre poche chance, e quelle poche devi saperle gestire al meglio, altrimenti perdi. Io mi ritengo fortunato ad aver già sperimentato questo passaggio quando tanti miei coetanei giocavano ancora il circuito under 18”.
– Qual è la cosa che devi migliorare per fare un altro salto di qualità? Qualcosa che riguarda i colpi, il fisico o la parte mentale?
“Non credo ci sia da lavorare tanto sui colpi, quanto sulla parte mentale. Sto andando bene anche in quel settore, ma devo fare meglio. Ogni anno, da che sono entrato nel circuito, ho saputo fare progressi, ma adesso per fare un piccolo passo avanti serve tanto lavoro. Fra un anno spero di essere cresciuto ancora, di essere migliorato fisicamente e mentalmente, poi la classifica arriverà di conseguenza. Fino a dove posso arrivare? Credo di avere il potenziale per arrivare tra i top 10”.
Parte 3
– Sei molto alto ma ti muovi bene sul campo. Sei soddisfatto di come stai lavorando fisicamente?
“Fortunatamente ho smesso di crescere, credo di essere alto abbastanza per un tennista, e so muovermi bene in rapporto alla mia altezza. Quando arrivo male sulla palla riesco comunque a sopperire con il controllo di palla, ma certamente la componente fisica è determinante come quella mentale. I primi quattro al mondo fisicamente sono eccezionali, dunque per arrivare lì non si può prescindere da una buona preparazione”.
– Lavori di più sul tuo fisico adesso rispetto a qualche anno fa?
“Certamente. Quando ero più giovane mi concentravo sul tennis. Cercavo di trovare il mio modo per giocare, le sensazioni giuste sui colpi, e questo secondo me non te lo insegna nessuno. È una cosa che ho imparato da solo. Poi, crescendo, capisci che ci sono altri aspetti sui quali lavorare. Adesso, se guardiamo ai ‘Fab Four’, riescono a dare il meglio in ogni torneo che giocano, e questo significa che hanno un fisico perfetto o quasi, di sicuro migliore di tanti altri. Per essere un buon tennista, in sostanza, devi essere un buon atleta”.
– Sei il numero 1 australiano e l’unico ‘aussie’ in grado di arrivare in alto. Questa cosa ti crea problemi?
“Due anni fa qualche difficoltà per l’eccessiva pressione l’ho avuta, non lo nego. Adesso c’è un altro australiano, Matt Ebden, che sta crescendo e questo mi lascia più tranquillo perché le attenzioni dei media sono anche su di lui. Inoltre è una buona notizia per la squadra di Davis del futuro. Io penso di aver imparato a gestire la pressione, e di conseguenza a non farmi influenzare quando sono in campo. Perché è inevitabile che quando pensi troppo giochi male”.
Parte 4
– Anche i tuoi rapporti con la stampa non sono sempre idilliaci…
“È vero, ho avuto dei problemi. Ma il vero problema è che sono giovane e devo imparare a gestire certi rapporti. Qualcuno ha scritto cose negative su di me di recente, ma fa parte del gioco. Dovrò trovare il modo di convivere con questo tipo di difficoltà. Spero che possano scrivere su di me per qualcosa che riguarda i miei risultati”.
– Non è facile avere sempre gli occhi puntati addosso, vero?
“Decisamente no. Perché nella vita succede di tutto, e anche le piccole cose, se vengono messe sotto i riflettori, diventano enormi. Nessuno è perfetto e nemmeno io lo sono, capita di sbagliare ma dai miei errori voglio imparare, cercando di non preoccuparmi troppo di ciò che la gente dice di me”.
– Quindi ti giri dall’altra parte senza dire nulla? Non sembra proprio nel tuo carattere…
“Si, potrei farlo. Anche se poi magari la gente ti considera uno smidollato perché non reagisci. Non so, è davvero una cosa nuova per me ed è difficile capire come affrontarla. Ma immagino di non essere il solo. Credo che anche Federer e Murray abbiano avuto i loro problemi alla mia età, poi avranno capito come comportarsi. Spero di capirlo in fretta anche io”.
– La terra non è la tua superficie preferita ma comunque stai facendo progressi. Ti piace giocare sul rosso?
“Adesso sì, mi trovo a mio agio. Sto capendo cosa devo fare e sono molto più sicuro di me rispetto a qualche tempo fa. Di certo non sarà mai il mio terreno preferito, ma mentre in passato era un problema giocarci, adesso mi diverto. E non escludo che in futuro possano arrivare buoni risultati anche nella stagione sul rosso”.
Parte 5
– Giocare sulla terra può essere un modo per migliorare anche sul veloce?
“Sicuramente. Lo scorso anno per esempio mi sono allenato sulla terra prima di cominciare la campagna sull’erba verso Wimbledon, e credo che questa cosa mi abbia aiutato molto. Mi sono ritrovato a essere molto più forte nelle gambe. Cosa che sull’erba conta moltissimo”.
– Wimbledon è sempre il tuo obiettivo?
“Direi di sì. Amo giocare sull’erba perché non mi danno fastidio i rimbalzi bassi, ed è la superficie migliore per mettere ancora più in difficoltà quelli che già non amano giocare contro di me. Wimbledon sarà sempre il mio torneo preferito. Per tutta la carriera”.
– Parlando di giovani come te, chi vedi come futuro top 10?
“Milos Raonic di sicuro. Poi anche Ryan Harrison e Grigor Dimitrov. Ma su questi non ci giurerei. Insomma, penso siano ottimi giocatori ma non saprei dire se arriveranno nei primi dieci. Per arrivarci devono cominciare a fare risultato negli Slam, nei tornei che contano davvero, dove fino a questo punto non hanno combinato granché. Altri all’orizzonte non ne vedo, al momento”.
– Hai fatto amicizie nel Tour?
“Mi diverto, mi trovo bene con tanti giocatori. Alla fine le persone che vedi sono sempre le stesse e piano piano ti fai nuovi amici. Suppongo sia un po’ come lavorare in uno stesso ufficio per anni, poi la confidenza arriva”.
E se andrà male in ‘ufficio’, ci saranno sempre il surf, la spiaggia, le ragazze, le auto veloci. Tutte quelle cose che adesso, per qualche anno, Bernard Tomic dovrà imparare a lasciare in un angolo. Per il bene suo e di chi ama il buon tennis.
La scheda
Bernard Tomic nasce a Stoccarda (Germania) il 21 ottobre 1992 da papà John (ex tassista ora coach del figlio) e mamma Ady (che lavora nel settore della biomedica). Ha una sorella più giovane, Sara, anche lei tennista. Destrorso con rovescio bimane (che può anche giocare a una mano all'occorrenza), ha nell'erba la sua superficie preferita, è a suo agio sul sintetico e sul cemento mentre fatica sulla terra battuta. E' cresciuto nel mito di Pete Sampras, ma i suoi idoli vanno ricercati in altri sport: Ian Thorpe e Michael Jordan. Da junior ha vinto l'Australian Open (a soli 15 anni, il più giovane in assoluto) e gli Us Open, oltre a tre Orange Bowl, nelle categorie under 12, 14 e 16.