Thomas Fabbiano, classe 1989, è stato uno dei tre talenti su cui l’Italia aveva scommesso una decina di anni fa. Gli altri due sono dispersi: lui, il più minuto, ce l’ha fatta. Da solo, ha toccato il paradiso top 100. 

 «Trevisan, Lopez, Fabbiano». A forza di sentirlo, il mantra aveva preso casa nel cervello.

Quel mattino avevo incrociato il migliore dei tre, mentre camminava spedito verso la Porte Suzanne Lenglen. Con le cuffie nelle orecchie, il taglio rasato ai lati e l’elastico delle mutande volutamente in vista sotto la tuta, guardava fiero avanti a sé. Era la testa di serie numero uno del tabellone dei minorenni, era Matteo Trevisan. Fresco di trionfo al Bonfiglio, a Parigi si presentava da numero uno al mondo; avrebbe perso in semifinale mentre Thomas Fabbiano da San Giorgio Ionico, il terzo elemento di quel salmo laico, si sarebbe aggiudicato il torneo di doppio con l’amico Andrei Karatchenia. Un successone. Trevisan, Lopez, Fabbiano: e quando arriveranno lassù, i gufi la smetteranno con la litania che la federazione ha i campi, i soldi, i maestri eppure non cresce un giocatore decente. Così mi diceva, mentre osservava tronfio un allenamento dei suoi accanto a una sessione di volée e battutacce da osteria di Marat Safin , il preparatore al sèguito dei giovani italiani1.

La cronaca, purtroppo, finì per raccontare un’altra storia. Quel sorpasso al cancello in Avenue de la porte d’Auteuil di nove anni fa è rimasta una delle prestazioni notevoli di Matteo Trevisan in uno Slam. Plurinfortunato e candidato al titolo di più forte giocatore italiano mai riuscito a far parlare di sé, arrivò a ridosso dei 250 al mondo nella sua stagione migliore. Daniel Lopez è disperso in Paraguay, dicono si sia ritirato. Del terzo dell’Avemaria, Thomas Fabbiano da San Giorgio Ionico, restava memoria per la acca nel nome troncato. Niente di esotico, solo una scelta della famiglia pugliese doc: un compromesso per conservare il nome del nonno senza trascinarsi la pesantezza austera di un Tommaso.

Anno 2016, tennisticamente una vita più in là: Thomas ha quasi 27 anni. È rimasto affezionato al metro e settantadue. Quando colpisce di dritto, pare usi uno schioppo a retrocarica. Ta-pum: la palla parte via spinta dalla polvere da sparo. Il suo avversario di giornata, l’ex numero uno italiano Filippo Volandri, dirà che gli pareva di aver giocato contro un assatanato. Fabbiano ha perso le tracce di Lopez e di Trevisan; nel mentre, la federazione italiana aveva provveduto a smarrire il suo, di numero di telefono. Come una fidanzata sparita così, di punto in bianco. Se tocchi l’argomento, lui fa un respiro lungo e sorride, prima di misurare la replica: «È una questione delicata. Fino ai 21 anni mi hanno tenuto sul piedistallo. Come è normale che fosse, avendo dato loro successi negli Slam juniores. La regola è che da lì in poi non ti aiutano, se non sei arrivato a un certo livello. E sono d’accordo: se non hanno più visto in me un potenziale, era loro diritto pensarlo e lasciare che me la sbrigassi da solo». Però. «Però, tutto quello che è venuto dopo l’ho raggiunto io, questo deve essere chiaro. Anzi no – e torna a sorridere a denti stretti – due o tre anni fa mi hanno concesso un posto nelle prequalificazioni al Foro Italico2» e lo dice appena prima che, durante il challenger di Napoli, Sergio Palmieri avvicinasse il suo coach a partita in corso, per informarlo che sarebbero stati lieti di fargliele giocare di nuovo quest’anno. «Comunque, li ringrazierò a vita per ciò che mi hanno dato. Finché ho compiuto 21 anni». Cioè, quando è stato piantato in asso. «Abbandonato è la parola giusta. A quell’età, e con la mia classifica dei tempi (ha compiuto i ventuno da 381 al mondo, nda) non puoi permetterti di pagarti l’attività di tasca tua».

Senza una cocciutaggine che è financo difficile da comprendere, perché quasi dieci anni di via crucis tra tornei scrausi e tentativi nei challenger abbatterebbero il morale di un monaco tibetano, accanto al suo nome si dovrebbe leggere la dicitura “ritirato”. Come tanti altri vedrai-che-questo-diventa-forte, le cui facce sbiadiscono sulle riviste specializzate impilate in cantina. Thomas, come Luca Vanni, ha fatto il miracolo della tigna: ad aprile 2016 lo trovi al numero 98 al mondo. Da stropicciarsi gli occhi. Il sito Fit gli fa i complimenti: adesso è un esempio “importante per tanti ragazzi che ci stanno provando”. È vero, sebbene dirglielo solo ora sia un esempio anche di qualcosa d’altro, molto italiano e leggermente meno virtuoso. «Però io non ho rancore: ci sono delle regole, hanno fatto delle scelte, punto». Massì. In fondo la federazione non è un ente filantropico, fa i suoi interessi: se servi, benvenuto. Sennò, saluti. E per i giocatori è una ghiotta possibilità: è lei a distribuire le maglie della nazionale, lei a poter allentare le corde del borsello offrendo finanziamenti e servizi.

Tutti si erano, meglio, tutti ci eravamo scordati di Thomas Fabbiano. Per rammentare come se la cavava, è stato utile consultare YouTube. Ironia della sorte, il primo risultato è un estratto degli Us Open 2013: l’unica partita Slam della vita, almeno fino a questa primavera. Un sorteggio irridente lo volle mandato a misurarsi con Milos Raonic, la torre canadese con un anno di vita in meno e due spanne di gambe in più. Primo punto: botta a 227 km/h. Se la palla restava in gioco, c’era match. Più spesso, andava diversamente. Ventotto ace più tardi, contro i frequenti zero di Thomas, finì con un dignitosissimo 6-3 7-6 6-3. Lo ricorda bene, quel giorno, riflettendo su una carriera da guastatore in mezzo ai bombardieri: «Il servizio, secondo me, fa la differenza ma tra vincere gli Atp e gli Slam, non tra il diventare forte o no. Ammetto che non sia al livello degli altri colpi, so che la mia velocità è inferiore alla media. Ma secondo me non è il fatto di non avere la battuta di Raonic che non mi ha fatto arrivare in alto. Al massimo, avessi avuto un gran servizio mi sarei potuto aiutare di più, invece di sudarmi tutti i punti».

 

 


FAB FACTS

Thomas Fabbiano è nato a Grottaglie il 26 maggio 1989. Ha iniziato a giocare a quattro anni al circolo tennis di San Giorgio Ionico, città in cui vivono il padre (medico generico) e la madre (estetista). Il suo primo maestro è stato Mario Pierri. Si è allenato a Roma con Vittorio Magnelli e Christian Brandi. Nel 2008 si è qualificato nel master 1000 di Roma e ha perso al primo turno contro Nicholas Mahut («Sono uno dei pochi che potrà dire di aver perso contro di lui sulla terra»); impresa ripetuta nel 2015, quando ha affrontato al primo turno Richard Gasquet (sconfitto 1-6 6-7). Ha vinto due tornei challenger: Recanati nel 2013 (in finale contro David Guez) e Zhuhai nel 2016 (in finale contro Ze Zhang). Il suo best ranking è 98, raggiunto nell’aprile 2016. Da juniores ha raggiunto la sesta posizione mondiale (stagione 2007). Professionista dal 2005, in carriera ha incassato 459.000 dollari in prizemoney: meno di 50.000 a stagione, cioè il costo minimo annuo dell’attività di un professionista.