THE SHOT: IL ROVESCIO DI DENIS SHAPOVALOV – Il canadese è la miglior speranza di un futuro brillante per il nostro gioco. Tecnicamente e stilisticamente parlando. In particolare, il rovescio scomoda paragoni illustri, da Leconte a Nureyev. Una vivisezione, non solo didattica, del colpo che ci ha più affascinato negli ultimi mesi.

Quando finisce il colpo, se il fotografo è puntuale e fortunato, sembrerà di rivedere in quello scatto Baryshnikov o Nureyev: un ballerino sospeso nel tempo e nello spazio, appeso a un equilibrio misterioso. L'atleta è appena più vestito, e si direbbe meno elegante, nei colori commerciali e spersonalizzano il tennis: ma quel gesto è il documento che, una volta vistato, restituisce Denis Shapovalov nella sua pienezza, nella sua necessità. Fu con il suo rovescio (e quello fraterno e speculare – destrorso, più ponderato ma ugualmente armonioso – di Stefanos Tsitsipas) che cominciammo il 2017, in un articolo che indagava questi indizi di resistenza della specie: «È il nostro essere uomini classici, unico modo di difenderci dal tempo, unica ricchezza che ci rende immortali in quanto immutabile. E quando un gesto ci conferma che siamo ancora in possesso di una mappa altrimenti perduta, siamo disposti a ingannarci, per crederlo. E allora il rovescio a una mano diventa un documento di sopravvivenza universale. Per questo lo vogliamo, lo cerchiamo, e siamo affezionati ai pochi ma tenaci esemplari, che finiamo per tifare, così come tiferemmo la vita, perché in fondo è un indizio della nostra stessa vita: vogliamo riconoscere qualcosa di perdurante nei tempi moderni, difendere questa apparizione nell’età del consumo come difenderemmo noi stessi dall’estinzione e solo dalla messa a riposo delle nostre illusioni. Abbiamo bisogno di confortarci con queste notizie, che ci concedono la possibilità negata dalla natura: sopravvivere». Cominciò così, il 2017. Finisce con quegli indizi divenuti realtà, con la speranza diventata sostanza. Undici mesi dopo, seguendo quelle tracce, siamo sopravvissuti, anzi, siamo vivi, vegeti e illusi. Il neo maggiorenne s’è fatto posto, anche con quel senso di colpa per essersi dapprima mostrato con una stizzita reazione che spedì la palla nell’occhio di un giudice di sedia. Quello scandalo così innocente nelle intenzioni e così imbarazzante per l’uso che di ogni cosa viene fatto nell’epoca dell’informazione diffusa e istantanea, lo ha costretto a rimediare. A fronteggiare il suo lavoro, gli avversari di un domani arrivato subito, perché ormai il nome era pubblico, con esso il talento e insieme quella disonorevole pubblicità. È accaduto allora qualcosa di precoce, e non poteva sfuggire – con il suo avvento – anche una certa visione del mondo, per essere modesti. Il suo tennis è maleducato: in uno sport che raduna ormai molti ultratrentenni, rinfaccia la giovanissima età. Va incontro alla palla con la spensieratezza di chi vive divorando gli istanti, colpisce come chi non pensa al domani, per sovrappensiero, per abbondanza di presente o per mancanza di passato. Senza calcolo e senza rimorso. Non teorizza ma incide sulla materia senza riguardo e senza domande. Costruisce per scoria di altre intenzioni, più pure, meno corrotte. Shapovalov gioca come s’affronta la vita, a quella età.

Il piacere e il divertimento sono armi tattiche perché il talento velocizza le sue esecuzioni. Corre verso la palla, caricando il colpo come se impugnasse un cero in processione, poi abbassandosi e affondando, quasi genuflettendo il ginocchio come un segno di rispetto al tennis e agli avversari – li ha battuti dopo aver chiesto loro l’autografo, anni fa, e ha sconfitto Nadal, del quale custodiva una foto concessa prima di un match, lui piccola mascotte dai capelli lunghi e biondi accanto al campione dai capelli lunghi e scuri, entrambi con una faccia bendisposta verso tutto. Finisce lì, il rispetto: poi il rovescio esplode, la racchetta che chiuderà il suo volo restando così alta, sfacciata, mostrata a tutti, intanto viene avanti svelta, affronta la palla in anticipo sulla regola, la traiettoria è sicuramente arrischiata, la linea diagonale, così schiacciata, diventa strettissima, ma un mancino può andare sul dritto avversario solo con idee coraggiose. Lo stile è perfetto, tutto il gesto ha una sua interezza, il corpo – tutto – freme e segue il gesto, il braccio destro è davvero quello del ballerino che cerca appoggi in aria, per restare in asse, in quella grazia innaturale dello sforzo contro l’inerzia, «la grazia innaturale di Nijinskij»: questo ricordava Battiato, in una crepuscolare e bellissima canzone sanpietroburghese. È dunque semplice intuire che Shapovalov si muove rivoluzionando l’ordine. La rivoluzione ha bisogno di classe, forza e giovanile prepotenza. È una cosa enorme. Tecnicamente è impressionante la tenuta del polso in un angolo con il braccio più acuto rispetto ad altri monomani (mai meno stretto di un angolo retto). Perché la ricerca di anticipo richiede un arco del piatto corde meno lezioso e scolastico, più aleatorio. Infatti, il canadese sa colpire sia più vicino al corpo rispetto ad altri, sia senza appoggi: esistono video di queste esibizioni un po’ irriguardose, con rovesci al salto: cose già viste ma nei colpitori bimani, capaci di buttare il peso del corpo sulla palla perché la massa si raccoglie e il rischio di deragliare è minore.

Ma colpire in salto con una mano sola (e l’altro braccio distante dal punto d’impatto) è possibile solo andando a caccia della palla, non aspettando la sua conveniente posa, da poter poi prendere una comoda mira. L’anticipo è sempre un modo elegante per truffare sulla velocità della palla e su quella dell’esecuzione. Ma il gesto è davvero così rapido da turbare: testimonia una coordinazione naturale e un talento per questo sport. Già lo scrivemmo: per impressione, ricorda il colpo di Henri Leconte, che era comunque diverso, singolare e irripetibile. E Leconte faceva tutto con il braccio, invero spesso poco assistito dal resto del corpo. Anche il nostro amico Paolo Canè rivedrà qualcosa della sua fluidità in questo ragazzo, che lo sopravanza in potenza e in fisicità. L’invito a tutti è di seguire la testa della racchetta: il gesto è così veloce che se ne perdono le coordinate, e resta quella foto, in fondo. Se la palla è più faticosa da trovare, se è bassa, Shapovalov mostra un arco più ampio, ugualmente fluido, più ricercato, pronunciando lievemente l’effetto a coprire. È nato nell’anno 1999, è registrato quindi nell’altro secolo, quello dei gesti bianchi, ed è come se sentisse il compito del testimone. Due settimane prima della sua nascita, Roger Federer si era presentato, battendo Davide Sanguinetti nella prima giornata del primo turno di Coppa Davis (poco prima, Marc Rosset aveva demolito il nostro talentuoso e tenero Gianluca Pozzi). Ha una faccia allegra, Shapovalov, ma non superficiale. È nato in Israele da genitori di ceppo misto russo e di desideri sportivi (lui pallavolista, lei allenatrice di tennis), cresciuto da subito in Canada, dove i suoi si sono trasferiti nel primo anno del secondo millennio. In campo, Denis usa tutti i colpi e tutti gli schemi, vuole arrivare a rete, ha un dritto efficace, preparato come ormai si usa, pronunciando l’uso del gomito del braccio battente. Il servizio è l’assicurazione del suo posto fra i grandi, le traiettorie inverse sono già bazzicate con astuzia e logica. Si muove bene, sa aumentare il rendimento nelle volate, se l’avanzamento è la sua filosofia di vita, non cede campo quando è costretto a correre: rientra con colpi clamorosi più che tattici. E s’illumina, rischiarando il nostro orizzonte, quando il rimbalzo lo chiama al rovescio, che è il suo passo verso la frontiera, il racconto del suo destino, la conquista dei nostri sentimenti, delle sue vittorie.