Passerà, prima o poi, questa noia mortale, questa monotonia che in confronto la Formula Uno è tutto un Moët Moment. Almeno i piloti con l’auto bionica sono due. E poi magari uno rompe, uno si ritrova una gomma a terra, un meccanico si inceppa, una Sauber ti tampona. Botte di adrenalina, rispetto al tennis. Djokovic non rompe mai, non si sgonfia mai, non si inceppa mai e gli altri vanno talmente piano che il cannibale lo batte solo la congiuntivite.
L’Impero del Nole non finirà sotto i colpi di un altro. Djokovic andrà avanti finché non correrà i 100 in 9’50, finché i contemporanei non saranno umiliati e i posteri non sapranno di essere eredi per caso. Quando Nole avrà battuto pure Beamon e Sotomayor e la Serbia avrà il suo nuovo grande Presidente, allora sì, la palla passerà al fortunello di turno, uno che sarà l’antitesi del perfezionista di Belgrado: cialtrone, guascone, un po’ quaquaraquà. Amato perché atteso ma non osannato, perché la sua missione nella storia non sarà migliorare il tennis, ma riumanizzarlo, guidandoci verso la decrescita felice.
Una capitale messa su di corsa per evitare che la rivalità tra Melbourne e Sydney superasse il livello di guardia e costruita seguendo il mito della città ideale, fatta di vialoni, laghetti, parchi e gallerie d’arte. Sulla carta tutto bello, in realtà un’accozzaglia di edifici anonimi, odiata dai suoi stessi abitanti. Un posto talmente alienante che negli anni Ottanta il Primo Ministro australiano John Howard preferiva sorbirsi 300 chilometri di Hume Freeway pur di non viverci.
a una manciata di isolati dalle sede delle istituzioni federali, terzo figlio di due immigrati: una principessa malese che aveva cestinato il titolo nobiliare pur di sbarcare Down Under insieme alla madre, e un pittore – nel senso di imbianchino, non di artista – nato in un paesino sulle montagne dell’Epiro e che aveva fatto le valigie per l’Australia durante gli anni Sessanta. Quelli che in Grecia sono stati favolosi solo per i colonnelli.
Giorgios, detto George, e Norlaila, detta Nilli, (lo shock da toponimi aborigeni ha portato gli Aussies ad un’intolleranza verso tutto ciò che eccede le due sillabe – così breakfast diventa brekky, barbecue barbie e Nicholas, ovviamente, Nick) avevano già avuto due figli. Uno battezzato secondo il rito ortodosso come il nonno paterno, Christos, l’altra come una principessa mesotopotamica, Halimah. Per i motivi di cui sopra, i due sarebbero poi diventati X e Hali. Col tempo si sarebbero diplomati rispettivamente in legge e in spettacolo, quindi uno avrebbe aperto palestre a Brisbane, l’altra avrebbe finito per recitare, danzare e cantare nei teatri giapponesi. Ma il loro posto al sole è nella corte dei miracoli del piccolo Nicholas, tanto spavaldo in campo quanto bisognoso di sentirsi tra due guanciali una volta uscito dalla comfort zone.
. È lento – e ci mancherebbe, tracagnotto com’è – e la testa parte spesso per la tangente. Basket e XBox, quelle sono le vere passioni del piccolo wog*. Passatempi che danno sostanza al suo bisogno di miti: i Boston Celtics, il Tottenham, Kevin Garnett, Adebayor. Tutte icone che sono ancora lì, nel pantheon kyrgiossiano, assieme alla famiglia, ai cani, al sushi e ai Griffin. Il Terzo Millennio ha aggiunto solo Rihanna e Twitter. E il sesso, vabbé.
Quando il circolo è chiuso, Nilli lo aiuta a scavalcare la recinzione per fargli tirare due colpi, anche a costo di obbligare la sorella a fargli da sparring. Perché il fisico non c’è, non ancora, ma l’appoggio della famiglia è totale e incondizionato. E lui intuisce che il dono di natura alimenta solo rimpianti e chiacchiere da bar. Per arrivare lassù ci vogliono volontà, umiltà e ambizione. Non in questo ordine, e per fortuna non in parti uguali. Quella stella polare lo porta, appena sfinato e sviluppato, a indossare la canotta della rappresentativa juniores di basket dello Stato. Un amore, il primo, breve e intenso ma che finisce a schifio. A 14 anni, dopo l’ennesimo infortunio, Nicholas ripercorre le orme dei genitori, abbandona la patria del cuore, la palla a spicchi, for a greater good, il tennis.
. A Lautoka, Nick spiezza in due tutti gli avversari, e in finale lascia quattro game all’israeliano Dekel Bar, di due anni più grande di lui, intascando il primo titolo ITF junior. Kyrgios ha 15 anni e 2 mesi, i capelli malamente ossigenati, al collo una collanina con un crocifisso, in camera i poster di Philippoussis, Tsonga e Federer. Sul diario di scuola appunta il suo nuovo motto: “Individua i tuoi idoli e poi superali”. Il treno è lanciato. L’anno seguente, NK fa capolino nel torneo junior dell’Australian Open. In tabellone le primedonne sono altre: Thiem, Vesely, Pouille, e il quindicenne Nick non va oltre il terzo turno. Tra l’altro, i riflettori australiani sono tutti puntati su Luke Saville, che nel giro di 12 mesi vince due baby Slam e sale al primo posto del ranking giovanile. Ma i ben informati lo sanno che The Next Big Thing è l’altro, quello meno biondo e meno anglo, nel look e negli atteggiamenti. Il potenziale è roba seria, Kyrgios merita fiducia e investimenti. Perciò a Larkham, che lavora sulla tecnica e sulla tattica, si affianca Aaron Kellet, che si prende carico dei muscoli e della testa. Un compito ingrato. Il terreno è sconnesso, il soggetto è spigoloso e bipolare: Nick si atteggia a Lil Wayne e ha fame a giorni alterni, ogni tanto dorme col sedere scoperto e quando c’è da lottare a volte si nasconde, altre si esalta. La lontananza da Canberra, poi, provoca lacrime e frustrazioni, isteria ed euforia.
L’umore è instabile, il corpo fragile. Kyrgios colleziona problemi un po’ dappertutto: al ginocchio, al gomito, alla schiena. Anche se in palestra si danna, la mobilità resta il suo tallone d’Achille. E poi psicologicamente è un front runner, Nick. L’entusiasmo che mette in campo è proporzionale ai 15 di vantaggio sull’avversario. Insomma, meglio insegnargli a prendere subito in mano lo scambio, perché è lì che Kyrgios dà il meglio di sé quando schiaffeggia col dritto, quando aggredisce le risposte come se avesse appena subito un affronto, quando frusta servizi sempre più forti da altezze sempre più mature. Il più delle volte, l’istinto basta e avanza per portare a termine lo spettacolo tra gli applausi, ma scrivere il copione diventa impossibile come fare le previsioni meteo a Melbourne. È sempre e solo Nick a decidere se piove o c’è il sole.
Il primo assaggio del circuito pro va esattamente così: nel pomeriggio in cui Viola recupera da 5-0 40-0 e batte Lajovic dopo aver annullato otto match point, Nick strappa il primo set al francese Rodrigues, poi si dissolve. Ha 16 anni e mezzo, una sconfitta nel primo turno delle quali di Melbourne – gli dicono – non è un dramma. Lui, ovviamente, i drammi li fa eccome, ma in quel 2012 solleva comunque un paio di coppe para-importanti, mettendo a segno la doppietta Parigi-Londra in doppio juniores. Andrew Harris, il suo partner, fa talmente bella figura accanto a Nick che John Roddick, fratello di Andy, lo mette sotto contratto per gli Oklahoma Sooners. Peccato che quello buono fosse l’altro. A Wimbledon, dove il duo aussie si impone senza concedere set, a farne le spese in finale sono Donati e Licciardi. In singolare, invece, Kyrgios si ferma nei quarti, beccando 6-3 6-1 da Quinzi. Ventiquattro mesi mesi dopo toccherà a Nadal saggiare le sue pallate, e lo spagnolo non ne uscirà bene come GQ.
Diciotto vittorie di fila a livello junior tra fine 2012 e inizio 2013, i primi punti ATP raggranellati nei futures giapponesi, il titolo giovanile a Melbourne in finale sull’amico Kokkinakis, il challenger di Sydney conquistato prima del diciottesimo compleanno (marchio di fabbrica di grandi del calibro di Djokovic, Nadal, Hewitt e Del Potro), giocando nella stessa domenica quattro partite – semi e finale di singolo, semi e finale di doppio – e vincendone tre. Con in tasca il primo assegno da 7mila dollari, e dopo aver scalato 500 gradini ATP in meno di due mesi, la sera stessa #NKrising vola a Pechino. Accanto a lui non c’è più Larkham, ma Simon Rea. È il coach neozelandese ad accompagnarlo negli ultimi tre tornei Futures della vita, quando Kyrgios si aggiudica 12 partite su 14 chiudendo la parentesi ITF proprio il giorno del suo diciottesimo compleanno, con un titolino in Cina e l’ingresso tra i primi 300.
Lo vedrà battere Stepanek al debutto a Parigi, quando Nick cancella sei set point consecutivi nel secondo e finisce col vincere tre tie-break su tre perché quel giorno, al Roland Garros, c’è il sole. Rea lo vedrà qualificarsi per il main draw New York e impegnare per un’oretta Ferrer; lo vedrà diventare il più giovane esordiente in Davis con la maglia dell’Australia; lo vedrà infiammare Melbourne Park contro Becker e Paire, intascare back-to-back i challenger di Savannah e Sarasota, e rispettare l’obiettivo top 200 in tempo per il diciannovesimo compleanno.
Nick atterra a Nottingham, dove sono in programma due challenger, da numero 173 ATP. La classifica è buonina ma non basta per entrare a Wimbledon dalla porta principale. Kyrgios è solo il settimo australiano del lotto, e anche i due che lo precedono – Duckworth e Groth – sono a caccia di punti per disputare i Championships. Le Eastern Midlands diventano così la sede di una specie di play off per la wild card aussie, ma Nick si complica subito la vita: fuori fase, nel primo torneo viene maltrattato dal suo mate John Patrick Smith, che in patria è il numero 8 e in classifica lo tallona pure. Per aggiudicarsi un armadietto a Wimbledon, insomma, serve un mezzo miracolo e nel secondo challenger, Nick lo confeziona. La rincorsa comincia dalle quali, poi in tabellone NK recupera un set di ritardo a Bemelmans, quindi liquida Edmund, la spunta 7-6 al terzo contro Krajinovic e in semi supera facilmente Mecir jr. La finale contro Groth è uno spareggio per l’All England: dopo due tie-break e uno stop per la pioggia, Kyrgios intasca il terzo titolo challenger dell’anno. Poi, prima della cerimonia e dei ringraziamenti, arriva il premio più atteso, la chiamata di Andrew Jarrett, capo degli arbitri di Wimbledon. La wild card è sua.
Sui prati di Londra, Kyrgios fa fuori Robert, poi annulla nove match point a Gasquet e vola al terzo turno facendo meno punti del francese. Prima di sbarazzarsi di Vesely, la promessa australiana è ospite di Mats Wilander e Annabel Croft su Eurosport: una decina di minuti di ovvietà sbiascicate, mai uno sguardo dritto in camera. La risposta più lunga dura 22 secondi ed è infarcita da 10 “You know”. Il primo luglio, però, la parola torna al campo. Ci sono gli ottavi, c’è il Centre Court, sugli spalti otto Fanatics, al suo angolo Hali, George, Aaron, Simon e la fisio Anne-Marie, dall’altra parte della rete il numero uno del mondo, Rafa Nadal. Si comincia alle 4.10 del pomeriggio con un ace di Nick, si finisce 2 ore e 59 minuti dopo con un altro ace di Nick.
Grado di difficoltà cento, dose di fortuna oltre la soglia di sopportazione. Un altro si sarebbe scusato, per quel miracolo da fondo campo in mezzo alle gambe. Stai pur sempre giocando contro Nadal nel tempio del tennis, non è che puoi bullarti per un punto da cineteca che è fondamentalmente un colpo di culo, e poi pure esultargli in faccia. Tu non ti fai ancora la barba, quello è Rafa, se la lega al dito ti manda a casa a piangere da mamma. Un altro avrebbe pensato così, Nick no. Nick non solo non ci pensa proprio a chiedere scusa. No, lui allarga le braccia per invitare l’applauso, per accogliere l’ovazione, per far sapere al mondo che lui è un fottutissimo genio, che quei colpi ce li ha nel sangue, per indicare ai fedeli le dimensioni del suo ego. “Preferite lui o me?”. Fino al 30 giugno 2014 Nick è un prospetto, dal primo luglio è un personaggio che entra nel circuito a piedi uniti. E dettando pure le condizioni. “Io sono questo. Se non vi sto bene, peggio per voi”. Perché il mondo di Kyrgios non conosce sfumature di grigio. O sei un lover o sei un hater.
, ma il dato che a lui interessa di più è che al suo risveglio i followers su Twitter sono triplicati. La marea dei fedeli si ingrossa, o almeno così crede. Prima che si schianti contro Raonic nei quarti, Nick è già stato processato, psicanalizzato e deificato decine di migliaia di volte. Troppo viziato e immaturo, si dice, potente e talentuoso sì, arrogante pure. Ma anche forte forte. E talmente fuori di testa da liquidare Simon Rea il giorno dopo i quarti di Wimbledon, dopo essersi affacciato tra i top 50. Perché nessuno pensi che i meriti dei suoi exploit vadano condivisi. I traguardi sono solo roba sua. Il lungo dopo-Djokovic comincia così.
La Bonds, la Beats e la IMG montano sul carro. Via la fascetta di spugna da bamboccione, il sopracciglio viene sfoltito con due rasoiate, ad ogni torneo spunta un taglio di capelli diverso, disegnato da una parrucchiera di Melbourne, Gidget Ricca. E poi, sotto il mohawk, l’orecchino, anzi il brillocco da gansta paradise, perché quando si è truzzi dentro è giusto rivendicarlo, il proprio orgoglio coatto. Tutto quel che segue è inevitabile, fastidioso e in un certo senso liberatorio. Kyrgios dà il prurito ai colleghi, alla stampa, alla maggior parte delle persone dotate di senno. Ma prende a calci l’etichetta prima di esser diventato un ex. E uno così, mentre Roger e Rafa imboccano il viale del tramonto, al tennis serve come il pane. Le spacconate non iniziano subito dopo Wimbledon, perché prima di Natale, Nick gioca solo altre otto partite perdendone la metà. A tenerlo lontano dai campi c’è qualche malanno, una pressione che schiaccerebbe un elefante e la malattia dell’adorata nonna materna. Quando Julianah Foster muore, a 74 anni, Nick si fa tatuare quei due numeri su un dito, il medio, che da lì in poi bacerà ad ogni vittoria. Durante la pausa invernale, poi, contribuisce con 10 mila dollari alla ristrutturazione del vecchio Lyneham Tennis Club, dove una tribunetta in legno viene battezzata Nanna’s Hut in memoria della nonna malese.
. Quarti a Melbourne, con match point annullato a Seppi, e Nick aggiorna il libricino delle statistiche-che-contano: l’ultimo teenager a raggiungere i last eight in due Slam era stato King Roger, mica cotica. In primavera, sulla terra di Madrid, proprio Federer diventa il secondo grosso trofeo di caccia da appendere sopra il camino. Anche questo condito da qualche palla match salvata. Nel giro di un paio di settimane per Nick arriva anche la prima finale ATP all’Estoril, la torta con 20 candeline e un nuovo best ranking al numero 30. Il vulcano è pronto ad esplodere, ma nei mesi seguenti sono più i flirt veri e presunti (Azarenka, Bouchard, Tomljanovic) che le vittorie, più le marachelle che le partite, più le multe che le menzioni d’onore.
. A Wimbledon, Nick ingaggia un duello col pubblico, maltratta racchette, ingiuria il giudice di sedia Lahyani, e mentre babbo Giorgios si fa cacciare dalla direzione, lui molla la presa contro Gasquet. Mamma Nilli gli tira le orecchie pubblicamente, Andrew Webster del Sydney Morning Herald scrive che è sempre più difficile amarlo, ma la vicenda s’ingrossa quando l’ex nuotatrice Dawn Fraser tira la bomba: “Se a Kyrgios e a Tomic non piace il nostro Paese – afferma l’ottantenne quattro volte campionessa olimpica – se ne tornassero da dove vengono i loro genitori”. Parole che scuotono una nazione fondata sul multiculturalismo, nella quale il ruolo nella società e i diritti delle minoranze sono bucce di banana da evitare con cura. Il clan di Nick gioca astutamente la carta del razzismo e si ritrova col coltello dalla parte del manico. La Fraser si ritira con perdite, Kyrgios si salva in corner.
: NK riesce a far parlare del torneo Montreal persino sui giornali generalisti italiani grazie alla versione ricottara del triangolo amoroso, il banging-gate. Stavolta Karen Hardy del The Age gli dà direttamente del coglione (twat) e della testa di cazzo (dick), punta il dito contro il modo in cui i genitori lo coccolano e in cui il suo clan lo protegge. Se fosse per lei – scrive – Kyrgios crescerebbe a forza di calci nel sedere. Frasi che down under non si leggono neanche sui blog dei curvaroli, figuriamoci su una testata vecchio stampo e sulla pelle di quello che ogni santo gennaio viene fatto passare per il supereroe nazionale per vendere qualche copia extra. Nick chiede scusa a mezza bocca, ma anche stavolta trova chi gestisce la crisi diplomatica peggio di lui. Interpellato da radio Triple M, il fratellone Christos dà della puttanella alla Vekic: “Non è mica colpa mia se le piace il Kokk**”, dice testuale. Per sgomberare il campo dai dubbi, mister X ci mette il carico da undici su Facebook: “Wawrinka è fortunato. Se mi avesse incrociato negli spogliatoi si sarebbe dovuto ritirare dai prossimi tornei” aggiunge. Tamarri si nasce, e i Kyrgios – modestamente – lo nacquero.
, se l’aussie non fosse imploso nei quarti contro Benoit Paire, sparando più f-words che winners, prendendo a pallate il tetto dell’Ariake Coliseum e cavandosela tutto sommato bene, con una multa da fare il solletico e l’appellativo di “patetico” affibbiatogli su Sky Sport dall’ex pro Nick Lester. A Shanghai la pagliacciata si ripete: fanculo al campo, ai cameramen e alle raccattapalle: sanzione da duemila dollari, nuovi appellativi sulla stampa tipo brat (a proposito… già detto che il brat originale, McEnroe, lo ha già apostrofato con un bonehead, che sa più o meno di imbecille?) e si ricomincia. Bello, no? Un’asta da Christie’s, un gioco al rialzo. Più lui fa il cozzalo, più il tennis si scuote dal torpore medievale e si ritrova nel futuro. Senza volerlo.
Sarà che le stagioni Down Under sono sfasate, ma invece di andare in letargo, in inverno Nick si inventa pure la saga-Davis. Un dramma in tre atti, una scaramuccia che sarebbe rimasta un affare interno all’Australia se non fosse che ormai le bambinate di Kyrgios creano dipendenza. Sull’erba di Darwin, il Kazakistan sembra un cliente facile, invece venerdì sera Kukushkin & Co. vanno a dormire sul 2-0, anche perché Nicholas non ha voglia di giocare e lo dice apertamente. A sé, a Wally Masur, di nuovo a sé e infine ancora a sé, assicurandosi che microfoni e telecamere registrino tutto. A sistemare la pratica ci pensano Groth e Hewitt, che nei sogni proibiti di qualcuno diventa la bacchetta magica per trasformare il rospo zarro in una macchina da punti. Vuoi vedere che il vecchio leone pensionato è l’unico in grado di farsi ascoltare e rispettare da Nick? Sì, quasi. Lleyton può fare il capobranco, non certo mettergli la museruola. Così, dopo che a novembre Kyrgios ha disertato la semifinale di Glasgow perché era più forte di lui, il 2016 inizia con l’ennesima sceneggiata sulla Rod Laver Arena e prosegue con la frittatona di marzo. La Davis arriva nel momento migliore della carriera del wonderboy, tra il primo titolo di Marsiglia e la prima semifinale in un Master 1000 – a Miami – che gli regala anche l’ingresso tra i top 20. Ma a Kooyong, Kyrgios fa incordare solo due Yonex, consuma quattro palline e poi saluta tutti. Lui ha la cacarella e si defila, lasciando Hewitt a calcare l’erba da ex e il polso di Tomic alla mercé dei maverick di Isner.
. Nicolino replica che non prende lezioni di serietà da Mister Tanking, Lleyton si domanda chi gliel’abbia fatto fare, Craig Tiley perché non sia nato 40 anni prima. Gli psicologi dello sport di una nazione si chiedono una volta per tutto cosa faccia la muffa nella capa di NK e la diagnosi è impietosa: il ragazzo annaspa nel gap tra motivazioni e obiettivi e soffre di impulse control issues, ha problemi di incontinenza verbale. Il tutto nasce da un conflitto permanente tra l’atleta e l’intrattenitore, tra il professionista e lo showman, tra il cocco di mamma che è dentro di lui e il bello e dannato che ha deciso di essere.
La verità, è che Kyrgios è un po’ come la grigliata di pesce ratto, per qualche motivo a qualcuno piace così. Ma di sicuro, dopo Nole, non ci annoieremo per un bel po’. Anche grazie a Nick.
*Wog è il termine derogatorio col quale in Australia si indicavano gli immigrati dal Medio Oriente, dall’Europa meridionale e dall’Europa dell’est. Oggi il termine viene usato per lo più in modo leggero e autoironico.
** Kokk è il diminutivo del suo amico Kokkinakis ma anche dell’organo riproduttivo maschile.
Articolo Pubblicato sul numero di maggio di TENNISBEST MAGAZINE