La difficile parabola di Vania King. Top 50 a diciassette anni, giocava perché costretta dal padre. Se ne è liberata, ma deve convivere con un grosso problema: L’assenza di motivazioni.
Il momento più bello nella carriera di Vania King: il trionfo in doppio a Wimbledon
Di Riccardo Bisti – 4 aprile 2013
Battere la migliore amica per rinascere. E' successo a Vania King, giovane veterana in difficoltà e precipitata al numero 136 WTA. A Charleston, l'americana ha superato le qualificazioni e battuto Yaroslava Shvedova (ex compagna di doppio, con cui ha vinto due Slam) prima di perdere dalla Petkovic. Sconfitta a parte, Vania vede un po' di luce in fondo al tunnel. Quando leggi che è professionista dal 2006, stenti a credere che abbia appena 24 anni. In questi sette anni sono successe tante cose. Nell’aprile 2006, Vania era una giovane promessa allenata da un padre autoritario e invadente. Però i risultati arrivavano. La USTA le aveva dato una wild card a Indian Wells e Miami e lei ricambiò vincendo un paio di partite. Giocava bene, vinse il primo titolo WTA a Bangkok ed entrò tra le prime 50. Da allora non ha più vinto tornei e non è mai rientrata tra le top-fifty. “Quando sei giovane vai in campo senza pressione. Nessuno ti conosce, nessuno sa come giochi. Sono entrata nel circuito e ho fatto bene per un anno, poi ho avuto problemi di motivazione. Ne ho da sempre. Non ho iniziato a giocare a tennis per mia scelta. Mio padre mi ha seguito sin da piccola e giocavo perché era quello che si doveva fare, non perché avessi davvero voglia”. Così, dopo il super 2006, Vania si è guardata allo specchio e ha dovuto decidere se fare la tennista secondo i dettami di papà o salvaguardare la vita di adolescente. Mostrando un notevole coraggio, decise di separarsi da papà David, un taiwanese emigrato negli States. “Non avevamo un buon rapporto – racconta – era diventato solo un allenatore, dimenticandosi di essere il padre. Ho dovuto chiudere la relazione per andare avanti. E’ stata dura, soprattutto per me. Ero un’adolescente infelice, poi lui era parecchio arrabbiato con me”. La decisione fu di Vania, ma ha dovuto combattere con mille dubbi. “E’ stato difficile scegliere, ma penso di aver fatto bene. Devi fare quello che pensi sia giusto”.
Dopo la separazione ha vissuto momenti difficili. A 19 anni si è trasferita in Florida e ha trovato il sostegno di Tarik Benhabiles, l’uomo che aveva scoperto Andy Roddick. “Gli devo tanto perché ha cambiato ogni aspetto del mio gioco. Mentalmente è stata dura, poi piano piano sono migliorata. Nulla succede senza intoppi”. L’inversione di tendenza si è vista soprattutto in doppio, dove Vania si è aggiudicata 14 titoli. Gli ultimi quattro, i più importanti, sono arrivati insieme a Yaroslava Shvedova, alta e potente. Con la King, scattante e minuta, si completavano alla perfezione. “Siamo diventate amiche perché giocavamo insieme nei tornei junior ed eravamo entrambe allenate dal padre. All’inizio ci salutavamo e basta. Ho voluto provare a giocare con lei perché mi ero resa conto del suo potenziale”. La coppia è nata grazie all’infortunio di Anna Lena Groenefeld, ex compagna della King. Una frattura da stress al piede la mise KO per la stagione erbivora 2010. “Ho chiamato la Shvedova e le ho detto: ‘Dai, Slava, è il nostro momento’. Nei primi tre tornei abbiamo fatto semifinale, finale e vittoria. La vittoria era Wimbledon”. Le due hanno continuato a vincere, trionfando allo Us Open e qualificandosi per il Masters di fine anno. Quest’anno hanno deciso di separarsi, ma non c’è alcun rancore. “Abbiamo preso questa decisione di comune accordo, ma l’amicizia resterà per sempre – dice la King – siamo molto vicine. Sappiamo tutto l’una dell’altra. Quando ti costruisci dei ricordi così importanti, il legame non si può spezzare”.
A differenza di quasi tutte le giocatrici americane, la King non ha rapporti con la USTA. “Quando ero giovane mi hanno aiutato, poi non ci sono stati più contatti”. Lo dice con un sospiro, soppesando le parole con attenzione. “Va bene così. Io faccio le mie cose, loro fanno le loro. I professionisti, di solito, non hanno bisogno di un supporto totale. A volte capita di aver bisogno di un preparatore atletico o di un supporto economico. Purtroppo, ho l’impressione che la USTA voglia gestire completamente i giocatori”. La King ha avuto la sfortuna di emergere nel periodo di splendore delle sorelle Williams, quando i palati erano molto esigenti. Un peso notevole, che non ha potuto dividere con altre giocatrici. Era l’unica. Adesso le cose sono cambiate, tante giovani si danno il cambio e gli States hanno piazzato 11 tenniste tra le prime 100. Si è anche creato un buon spirito di squadra. “Sono tutte brave ragazze, molto talentuose. La loro presenza è un bene per tutto il movimento”. Adesso la King prova a rinascere. Ha ingaggiato Alejandro Dulko come coach, ed è moderatamente ottimista. “Per ora va tutto bene. Devo solo lavorare giorno per giorno, perché per un anno ho avuto problemi di motivazione. Ho pensato a lungo cosa fare della mia vita, quale fosse la cosa giusta da fare. Ma ho sentito che dovevo darmi un’altra chance, provare qualcosa di nuovo e vedere come va”. Intanto ha iniziato a fare coppia con Lisa Raymond (reduce dal gran torneo a Miami con la Robson), ma soprattutto vuole pensare positivo. “Voglio vivere un giorno alla volta, facendo del mio meglio, sapendo che ci saranno sempre alti e bassi”. E’ lo stesso nel rapporto col padre. “Oggi va bene. Andiamo d’accordo, ma non è facile. Il tempo ci ha fatto bene. Il tempo uccide, ma può anche guarire”.
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