La 136esima edizione del torneo di Wimbledon prende ufficialmente il via, con l’inizio delle qualificazioni

Tratto e rielaborato da VAGABONDO PER MESTIERE

Non tutti sanno che…

Roehampton è un mix architettonico a sud di Londra nella parte più ovest del distretto di Wandsworth. Spazia da grandi caseggiati popolari a immobili chic del ‘700 e può vantare residenti di lignaggio tra i quali spiccano un paio di primi ministri, diversi lord e personaggi dello spettacolo come Simon Le Bon, Jack Hawkins e Dennis Waterman. Dista poche miglia dal centro e a sud corre rasente il comune di Wimbledon. Fa sfoggio dell’Università di Richmond e nel verde diffuso di grandi parchi e alberi frondosi, offre strutture sportive incantevoli che spaziano dal golf al cricket, dal polo al croquet fino a un tennis che dice la sua con i ventidue campi del Centro Nazionale Britannico e i ventotto della Banca d’Inghilterra. Un club, quest’ultimo, che, menando un po’ di spocchia, è ambito al punto da meritare l’attenzione della federazione inglese e di quella internazionale che, già da tempo, vi hanno piazzato le tende, preferendolo alla vecchia sede in Barons Court.

A dispetto di tanto tennis, tuttavia, pare che nel suo ambito, il cricket goda tacitamente di maggior riguardo. Nessuno oserebbe ammetterlo, ma l’ubicazione, appena a ridosso di una splendida club house cintata di vistose ortensie, la dice lunga sulla sudditanza che incute all’interno del prestigioso sodalizio. Nel perimetro a esso riservato, infatti, compassati signorotti si riuniscono settimanalmente in squadre da undici, abbigliati con pantaloni color latte e soavi polo dello stesso tono, indossate sotto maglioncini in bianca lana con treccine perpendicolari tessute in un impercettibile bassorilievo. Amano darsi sfide dal tono goliardico per misurarsi in uno sport che ingenerosamente, qualche detrattore, definisce un surrogato del baseball o peggio ancora “della tavoletta”. Un pettegolezzo di basso taglio che in realtà si infrange sulle grandi simpatie che il cricket riscuote, seppure confinate ai paesi del Commonwealth e a dispetto delle interminabili regole dalle quali solo il pragmatismo british riesce a uscire vivo.

Il tennis, invece, è visto come quello sport con una rete nel mezzo e una palla a zonzo per il campo da malmenare a turno da soggetti armati anch’essi di un attrezzo, ma questa volta con le corde al centro. Per scorgere i campi, meglio buttare l’occhio più lontano. Solo appizzandolo se ne intravede una lunga sfilza divisa in blocchi e dall’aria un po’ annoiata. Dieci sono in erba e solo raramente godono di tribune che, seppure vuote, offrirebbero ai rettangoli una veste di rilievo. Ma c’è un momento dell’anno in cui il tennis consuma la sua vendetta e come per incanto, gli spazi salgono a quattordici e il cricket sacrifica il suo acro abbondante agli eroi della racchetta, che ne fanno una zona sfaccendata da bazzicare in uno sbragato relax. Accade intorno al solstizio d’estate di ogni santo anno che ha mandato Iddio, quando la qualificazione al più prediletto degli Slam finisce col guadagnare l’interesse del pianeta. L’ingresso è libero e i portatori sani di quella che qualcuno definisce “libido primaria del tennis” possono stravaccarsi a bordo campo e godere di uno spettacolo che a Wimbledon costerebbe un occhio della testa se non precluso per la cronica penuria di biglietti. C’è anche chi si organizza a pennello con seggiole pieghevoli uso spiaggia e chi addirittura traina scrupolosamente al seguito un morbido cuscino per mitigare torture inevitabili che una giornata da spettatore può cagionare al delicato lato B. Una settimana in cui tutto si anima di arredi racchettari sui quali troneggiano seggioloni per giudici impeccabili, tendalini frangivento scevri da sponsor e reti centrali tenute su da eleganti paletti in legno.

A ridosso della vigilia, esperti del ramo, con pignoleria tutta anglosassone, rifanno il trucco al verde rigandolo con tracciati a prova di millimetro. È il tocco finale, dopodiché non manca che la materia prima: centoventotto assatanati, lanciati in una guerra, uno contro tutti, proiettati ad arrembare un tabellone principale che non fa sconti a nessuno: la spunteranno solo in sedici, gli altri tutti a casa!

E se il sole ci mette lo zampino, l’indomani quella distesa verde diviene un florilegio di figure rigorosamente bianche che, ostentando movenze da pantera rosa, prendono a tallonare palline giallo limone evocando l’eterna sfida tra guardie e ladri. Vista dall’alto una ricca galleria di traiettorie si intreccerà a perdita d’occhio confusa in un tourbillon di contrasti tattici assortiti per lo più tra attacco e passante, battuta e risposta. Qua e là svetta qualche lob ruffiano, che, arrancando a fatica verso il suo apogeo, ripiomba giù come un proiettile per compiere il suo destino tra le stringhe di uno smash che, a volte sì, altre no, mette fine alla sua abbondante parabola. In un clima ovattato la spunterà soltanto la mitraglia di dieci, cento, mille impatti, mentre sui morbidi tappeti, pur lanciati a tavoletta, i piedi sembreranno avere la sordina.

Se invece piove, sono guai! Dentro, fuori!… E ancora dentro per riuscire ancora. Uno snervante struscio tra campi, spogliatoi e club house che, a intermittenza, si prolunga fino a sfinimento. Potrebbe andare avanti a oltranza frantumando nervi e match per la durata di più giorni. Uno stress a non finire, ma è il prezzo della gloria.