Cavalcando un ottovolante, Nick Kyrgios ha fatto il suo primo ingresso in una finale Slam. Così ai tanti curiosi che amassero scrutare meglio su cosa frulli nell’ego amplificato dell’«aussie», consiglierei di andare a caccia del sostantivo «ludo». L’excursus li condurrà verso il centro di un corposo dizionario per scoprire che il termine allude a tutto ciò che ha carattere giocoso. E avvalendosi della definizione letterale scopriranno che trattasi di «attività gioiosa, svincolata da regole troppo rigide», dunque affidata alla libera fantasia.

Cavalcando un ottovolante, Nick Kyrgios ha fatto il suo primo ingresso in una finale Slam. Insofferente alle lungaggini, per farlo ha scelto l’erba di Wimbledon, otto millimetri più inclini allo scambio rispetto ai sei del tempo che fu, ma comunque affini a un tennis che ama andare per le spicce. Nei loop di avvicinamento, Nick il burbero si è imposto di non andare oltre i due, tre scambi, dilungandosi solo in occasioni speciali quando, per esigenze di vittoria, buon senso impone il ricorso a colpi di riserva. Niente di stucchevole, conclusioni coi baffi come volèe stoppate, fulmini di servizio, tweener da acrobata e perché no, smorzate spaccagambe seguite a un paio di siluri esplosi da dietro. O la va o la spacca, lontano da convenzioni tattiche troppo scontate. Una strategia che gli è valsa anche la prima frazione del match clou contro Djokovic, prima di iniziare a perdere i pezzi appena il serbo l’ha attirato nel ginepraio degli scambi a «babbo morto», muovendo la palla veloce e con sagge geometrie. Una lucida gestione che ha spinto il serbo al successo in un match gradevole e ricco di spunti scaturiti dalla diversità di stili.

Un confronto che ripropone il finalista come soggetto geniale tutto da studiare. Così ai tanti curiosi che amassero scrutare meglio su cosa frulli nell’ego amplificato dell’«aussie», consiglierei di andare a caccia del sostantivo «ludo». L’excursus li condurrà verso il centro di un corposo dizionario per scoprire che il termine allude a tutto ciò che ha carattere giocoso. E avvalendosi della definizione letterale scopriranno che trattasi di «attività gioiosa, svincolata da regole troppo rigide», dunque affidata alla libera fantasia. Un’ottica spensierata di cui lo sport ha fatto bottino lasciando ai suoi praticanti la facoltà di attingervi a piene mani. Una leggiadria che a tratti assale il marcantonio olivastro di Canberra quando le cose vanno bene, calandolo nei panni di un carezzevole peluche. Quando vanno male, invece, l’omaccione torna a spedire minacciosi soliloqui al circondario e per aggiungere enfasi indossa capelli da mohicano portati a spasso a quasi due metri dal suolo, tanto da trasformarlo in un tipaccio che una volta nell’agone ama cambiare campo a testa bassa trainando al seguito membra apparentemente stanche, mentre tra i denti serra non proprio un coltellaccio da pirata ma un innocuo telo tergisudore. Il tutto avviene senza venir meno a quella fanciullezza che dietro modi da cattivo rivela l’anima del supereroe in cerca di giustizia. Stando così le cose, l’australiano è capace di un tennis estremo dettato da pettorali in esubero quanto soft, eseguito da una mano fatata che si direbbe ereditata dal padre pittore.

Percorrendo anche vie di mezzo, il Capitan America della racchetta si abbandona a diavolerie gestuali cavate da un cilindro senza fondo. Un illusionismo degno del miglior Houdini, qualcosa che in un tennis ricco di statistiche, talora avaro di spettacolo, eleva il moro del Queensland a raro esempio di bizzarria tecnica, un mix che allieta l’occhio pur sfiorando spesso i limiti della stravaganza. Un soggetto che ha imposto il suo ruolo nel circuito con qualche battuta infelice mirata ad abbattere le barriere della riverenza a tutti i costi e che vive il suo lato ribelle collezionando con piacere, warning, squalifiche e sanzioni di cui si è perso il conto. Come quella al Queen’s 2018, 15.000 pounds per gesti osceni, o l’altra a Shanghai, nel 2016, per scarso rendimento, sottolineata dal pubblico con 25.000 fischi, tanti quanti i dollari dell’ammenda. Nell’occasione, l’Atp non gli risparmiò una sospensione di otto settimane, poi ridotte a tre con il consiglio di rivolgersi a uno strizzacervelli in gamba. Fino alla lite con ritiro messa in scena al foro italico lanciando sedie in mezzo al campo.

Che dire? Intanto che è uno dei rari esempi in cui l’insofferenza sfocia in soluzioni vincenti di rara fattura. Per il resto mi aggrapperei alla scienza che talvolta sovrappone la seconda adolescenza alla prima giovinezza, giacché l’età cronologica spesso differisce da quella biologica. In questo caso, tutto farebbe pensare a lui come a un bambinone in leggero ritardo sui tempi, un fanciullo che ricorre a forza bruta per giusta causa tuffandosi, appena dopo, in sembianze da bambolotto pronto a rallegrare il prossimo. Alternando apatia a esaltazione, la geniale discontinuità del gigante australiano vanta sei titoli e diverse finali, qualcuna buttata alle ortiche per il troppo ludo. Giura di amare molto basket e calcio e nulla osta a prenderlo sul serio. Quello che solo in pochi hanno capito è se tra i suoi preferiti ci sia anche il tennis. A dipanare la questione arriva a fagiolo questa finale. Uno scontro tra stili che ha visto prevalere la continuità rispetto all’estro e dice che per avere la meglio sui pezzi da novanta ci sarà bisogno di un Kyrgios vero e non di un buono truccato da cattivo.