E’ l’amarezza più grande del tennis: perdere sprecando matchpoint. Ma persino i profeti, oltre che Federer, ci insegnano che anche da una delusione terribile si può imparare, che c’è una grazia anche nelle sconfitte

“Non spetta a te portare a compimento l’opera, ma non sei libero di sottrartene”. Questa volta prendiamo le mosse da uno dei testi più gloriosi della tradizione rabbinica, i Detti dei padri (Pirqè avot). Del resto anche il direttore qualche volta ama scomodare la mistica ebraica, dunque siamo in buona compagnia…

Di nuovo: “Non spetta a te portare a compimento l’opera, ma non sei libero di sottrartene”. Parole che potrebbero aprirsi a infiniti commenti. Ma noi vogliamo applicarle al tennis, per riflettere su uno degli eventi più frustranti e dolorosi che possa avvenire sul rettangolo di gioco: sprecare uno o più match point, per poi perdere, magari dopo altri estenuanti minuti di agonia agonistica. Mentre scrivo, l’ultimo a mia conoscenza a subire tale sorte è stato il nostro Jan il rosso, contro Auger-Aliassime, agli ottavi di Cincinnati. Per non parlare di quando ciò avvenuto a Re Roger nella finale di Wimbledon, il 14 luglio 2019, giorno nefandissimo.

Si arriva a un punto dal cielo e poi si sprofonda negli inferi. Chiedendosi – immagino – dove si è sbagliato, come si poteva giocare quel paio di scambi decisivi, rigiocando all’infinito quei punti nella propria testa, nei propri incubi. Proviamo a cogliere una valenza positiva, con estrema cautela. Nella vita, effettivamente, vogliamo agire ma non portiamo mai tutto a compimento, perché a un certo punto vi è un limite ultimo: vorremmo ancora avere un po’ di tempo per finire questo o quello, ma è il tempo inesorabilmente a finire. Qui ci soccorre il nostro amico Qohelet, sapiente biblico, che immagino sarebbe stato un tennista mirabile, capace di irretire ogni avversario nella ragnatela dei suoi colpi… finendo magari però spesso per perdere: “Dio ha fatto bella ogni cosa al tempo opportuno; ha posto anche nel cuore umano il mistero dell’eternità, senza però che essi riescano a trovare, a comprendere il senso delle cose, dall’inizio alla fine”.

E allora sprecare match point può essere un monito a continuare a provare e a riprovare, sapendo che prima o poi andrà, che un match lo si vincerà, magari anche un torneo, magari anche uno Slam. Ma poi si perderà molte più volte, è statistica (a meno che non ti chiami Roger, Rafa o Nole; che poi chissà come affrontano, al loro livello eccelso, anche una sola sconfitta di quelle davvero brucianti…). Sapendo che la vita va affrontata, cadendo e rialzandosi, cadendo e rialzandosi, cadendo ancora e rialzandosi ancora. Ricordate la frase di Beckett tatuata sull’avambraccio sinistro di Stan Wawrinka? “Hai sempre provato. Hai sempre fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”. Un po’ estrema, ma a suo modo incoraggiante.

D’altronde, c’è forse un match point sprecato più duro da digerire di quello vissuto dal grande profeta biblico Mosè? Quarant’anni per condurre Israele dall’Egitto alla terra promessa, fatiche immani per guidare un popolo ribelle… e poi non può entrarvi, ma solo contemplarla dall’alto! Eppure, con una grandezza d’animo quasi inconcepibile, Mosè risponde: “Signore del mondo, perisca Mosè e mille come lui, ma non si perda un’unghia di uno solo di Israele!”. Certo, qui tocchiamo vette in cui l’aria è molto, forse troppo rarefatta. Ma queste parole possono aiutarci nella nostra più feriale quotidianità, quando sbagliamo, cadiamo, falliamo il giusto tempismo. Succede, inutile negarlo: dunque, che farne? Come giocare la prossima partita? E come allenarci a lasciare la presa, quando sarà?Ancora i Detti dei padri: “Se io non sono per me, chi è per me? E se io fossi solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?”. Quando? Dove? E soprattutto, come? Alla vita la risposta…