Roger Federer cede in tre set a Hubert Hurkacz: “È l’ora della solitudine, del congedo, ognuno a modo suo”

7 luglio 2021, poco dopo le 19. Caldo umido dalle nostre parti, vento sul Centre Court di Wimbledon, dove l’orologio è un’ora indietro, con azzeccato simbolismo.

Nei quarti dei Championships Roger ha appena perso i primi due set contro l’onesto ventiquattrenne polacco Hurkacz, uno dei tanti cresciuto con il Re come eroe. Uno che solo due anni fa Sua Immensità avrebbe domato con nonchalance. E invece eccoci qua. Nel tiebreak del secondo set Roger ha perso due punti incredibili a rete, il secondo scivolando in modo sgraziato, triste profezia. Inizia il terzo set. Stacco ogni contatto su Whatsapp, annunciandolo ai tre amici della mia chat federeriana. Anche loro sentono il momento. È l’ora della solitudine, del congedo, ognuno a modo suo. La fine è vicina, scrivevo poco più di due settimane fa su queste colonne. Mi permetto di citarmi e di infrangere il ritmo della rubrica, perché l’hic et nunc lo impone. A noi, Roger.

Primo game vinto facile dal tennista con due parolacce nel cognome, come dice un artista della parola, tennistica e molto oltre. Il Re cede il secondo dopo essersi vanamente ribellato e aver annullato due break point. Non ce la fa… L’opinionista di ESPN, il grande Brad Gilbert, nota che Roger non perde a Church Road in tre set dal 2002, e l’unica altra volta nel 2000. Ma ormai ci siamo… Roger non rincorre più la pallina: il braccio c’è, il genio ancora in un paio di magie, ma le gambe non seguono. “Ecco, l’ora è giunta”, memoria di un canto liturgico della Settimana Santa… In un attimo è 0-3. Questione di minuti, ormai. Distrattamente apprendo che sul campo 1 il Berrettini nostro ha vinto il primo set. Splendido, ma non riesco a gioire. Mi scopro anche a chiedermi: meglio che Roger perda oggi, piuttosto che sia umiliato probabilmente da Matteo, sicuramente da Nole? Chimere, il Genio non esce più dalla lampada, è imbottigliato, sbaglia palle facilissime per lui. Il cronista: “This is it, this is it. Pure desperation time for Federer”.

0-4. Qui comincia un temporale con fulmini. Anche il cielo s’inquieta e piange. “Le potenze dei cieli saranno sconvolte”: non suoni blasfema questa memoria evangelica, ma mi sovvien l’eterno… Sguardi attoniti sugli spalti. Sguardo perso di Roger. E ora lasciamo la cronaca, è questione di minuti. Dunque.

“Il tempo è compiuto”. Il rabbi e profeta di Nazaret aggiungeva a questa constatazione un monito: “Convertitevi!”. Sì, è ora di cambiare definitivamente mentalità. Cioè, nel nostro piccolo, di fare i conti con la fine della carriera del Re ad altissimi livelli, oggi. Neanche di accettarla: di accoglierla: solo di constatarla. Non è in ogni caso normale che un quasi quarantenne arrivi fin qui, ma l’ottimismo della volontà spingerebbe a dire: “Ancora un giorno, ancora un altro”, senza fine. E invece no. La vita preme alle porte e dice: “Cambiate mentalità!”, su tante cose, anche su alcune fini necessarie nella nostra vita personale. Avevo iniziato questa rubrica il 1° gennaio 2020, deciso a intitolarla “Il tempo della fine”. Titolo criptico, intellettuale, che una fortunata intuizione del Direttore ha mutato in “Atto di Federer”. Ma almeno oggi la mia idea pare azzeccata. Anche contro le attese più profonde del mio cuore: ancora tre ore fa credevo che Roger l’avrebbe sfangata ancora una volta. Sempre domani, la fine. E invece arriva quando vuole. Il cronista: “Roger fuori con un bagel”, cioè uno 0-6? “Impensabile!”. E invece. Per la cronaca, è solo il quinto bagel che Roger subisce: tre quando aveva 19 anni e uno da Nadal. Un mondo sta finendo. 0-5. Questione di attimi. Esco definitivamente dalla cronaca, che leggerete altrove, anche in questo sito. Scorreranno i proverbiali fiumi di inchiostro: fumo verbale, direbbe Qohelet. Gli sciacalli della rete sono già all’opera, chissà poi in cosa consiste il loro godimento… È finita, 0-6. “This is it, for Federer”. Saluto veloce di Roger alla folla adorante. Forse è l’ultima volta che mette piede da atleta sul Centre Court. Lezione semplice semplice, questa sera: bisogna abituarsi all’idea della fine, anche delle cose più belle. Arte della diminutio, del congedo, del lasciar andare. Quanti drammi ha causato e causerà il non volere o sapere assumere questo stile…

Un magone grande come una prugna occupa la mia gola, non lo nascondo. Perché poi celarlo? Tu chiamale se vuoi, emozioni.

Grazie, Roger, ti voglio e ti vogliamo bene.

Grazie, Roger, per la bellezza che ci hai donato.

Grazie, Roger, per le tue magie che questo sommo teatro e tanti altri hanno accolto.

Grazie, Roger.

La rubrica non finisce qui, forse ci sarà qualche altro pezzo, se ne sarò capace. Nole vincerà il suo ventesimo Slam, ma questo non conta. I tre tenori sul 20, 20, 20: ma gli altri due, e soprattutto uno, aggiungeranno numeri. La questione però è davvero oziosa, e se volete potete leggere una splendida riflessione in proposito sull’editoriale dell’ultimo numero cartaceo della rivista, in cui si cita anche la qabbalah ebraica (!). Si conclude così: “Mi sono sempre rifiutato di considerare Federer il più grande in base al numero di Slam vinti quando il Genio pareva irraggiungibile; lo stesso vale per Djokovic o Nadal oggi che le loro chance di accumulare più major sembrano concretissime. Il mio sogno segreto, lo ripeto, sarebbe di vederli chiudere la carriera statisticamente alla pari. Facendoci così il favore di sbarazzarci dalla tirannia dei numeri senz’anima, e liberandoci dalla necessità del Giudizio Finale”. Anche il mio, di sogno. E invece da domani si tornerà a questo sterile esercizio. Per una volta, stasera, trascuriamo la cronaca e corteggiamo la storia. Grazie, Roger, per averci fatto balenare l’ultimo colpo impossibile: l’arte del congedo, semplice eppur così difficile. “Let’s go, life, let’s go!”. Vado a brindare, pur in solitudine. Dall’angolatura opposta, del resto, la fine è un nuovo inizio.