«Vuoi allenare dei giapponesi?», mi dice Claudio Pistolesi un lontano giorno del ’96 al torneo di New York. Parole a bruciapelo che su due piedi mi avevano spinto in uno sfarfallio di pensieri circa un paese tanto intrigante, unto di antiche tradizioni e di profondi simbolismi. Terra di fieri Samurai, culla di letterati alla Yukio Mishima o figure mistiche come Takuan Soho. Insomma, parole sante, quelle di Claudino, che una volta tornato in me, raccolsi come la realizzazione di un sogno.

Un lungo sogno! Un viaggio onirico durato una decade tonda tonda che in quel remoto abbrivio mi aveva assegnato nientemeno che Yuka Yoshida, tennista in forte ascesa del lontano Sol Levante, vent’anni appena, sessanta del mondo e titolare di Federation Cup. Non oltre l’uno e sessanta, la giovane promessa sfoggiava un visino ovale coperto in parte da capelli corvini rigorosamente lisci, raccolti in una minuscola coda di cavallo. Due occhi allungati sui lati tradivano la giusta intelligenza e il suo tennis si riassumeva in fondamentali di ottima fattura seppure carenti di spinta e profondità. Un fare riservato, quello che nell’immaginario collettivo fa dei nipponici soggetti tutti d’un pezzo, difficili da scalfire! In verità i sudditi di quel remoto impero sono sempre in fermento anche se, diversamente dai latini, non amano far mostra di sentimenti e contengono tutto in espressioni apparentemente impenetrabili. L’insegnamento non fa eccezione e insegue uno spirito contemplativo, corticale, intuitivo, la perfetta antitesi di quello socratico di stampo occidentale basato più sull’uso di favella che non di prolungati silenzi.

E fu proprio di parola che, all’inizio, feci largo sfoggio, pensando di fare colpo su quella minuta fanciulla giunta dall’estremo oriente per affidarsi ai miei servigi di coach ammantato di sapienza Così, un mattino di fine maggio ’97, armato di cieca certezza, iniziavo un primo allenamento in un campo laterale del Foro Italico. “Tira, tieni, allunga, chiudi…»,andavo dicendo a raffica buttando lì le solite banalità spacciate per dritte vere e proprie. Un approccio che, neanche a dirlo, finì col sortire l’effetto opposto: “Ti prego”, mi dice d’un tratto lei in modo garbato seppure un po’ stizzito, «non parlarmi continuamente, mi confondi». Un attimo di panico in cui non trovai di meglio che tacere, poi, una volta incassato il colpo, aggiungevo balbettante «Ah… Ok…I’m sorry»!

Mi aveva spiazzato e, ormai nella terra di nessuno, il rapporto aveva prodotto un primo turno a Roma e qualcosa di analogo a Cardiff . Fu ancora arido a Strasburgo e cambiò musica con un buon primo turno al Roland Garros, vinto su Rachel McQuillan, australiana di buona levatura ma non abbastanza solida da evitare un 6/2 6/4 da quella giapponesina che, a dispetto delle poche parole, iniziava a mostrare segni di maggiore aggressività. Insufficienti, tuttavia, a contrastare una sconfitta per mano di Kimberly Po, temibile americana dal cognome corto e dal gioco lungo. La mia allieva le tentò tutte ma non poté evitare un 6/3 6/0 che non concedeva il fianco a scuse. Un esito, tuttavia, che in conferenza stampa, la fanciulla sapeva tradurre con parole tali da sorprendere chiunque, me compreso: «… Una buona partita. Sono soddisfatta e sento che sto migliorando». Poi alla domanda circa quel nuovo coach in arrivo dalla città eterna, aveva elargito parole di elogio rinnovando apertamente totale fiducia. Qualcosa che l’indomani in aeroporto avevo voluto indagare. « Dimmi, Yuka”, esordivo con tatto in attesa dei relativi voli per Tokyo e Roma, «Sei soddisfatta del lavoro svolto fin quì?», «…Sì, certo», replicava lei con serenità sconcertante, «… molto…», aggiungeva subito dopo sgombrando un altro pezzo di orizzonte. Poi, in vena di loquacità concludeva: «Tu sei il coach, e quello che fai va bene!»

Un insospettabile feeling che, a dispetto di tutto, rinnovammo due settimane dopo al torneo erbivoro di ROSMALEN, dove campi morbidi penalizzavano il tennis di quella minuta figura, ancora immersa in allenamenti troppo abbottonati. Perse in singolare ma giocò un ottimo doppio in coppia con Ai Sugiyama ,superando in ottavi una giunonica Mary Pierce spalleggiata da degna compagna e perdendo nei quarti da due francesine che la sapevano più lunga in tema di volée. Insomma un buon torneo, propedeutico a quello ben più atteso di Wimbledon.

Un treno, un volo, una metro e via di filato verso Church Road, dove, entrando in campo, quel tardo pomeriggio, realizzai che così non poteva più andare e in uno slancio di schiettezza, a metà del training fermai tutto e vuotai il sacco: «Oh, insomma, Yuka», dico in modo ormai informale, «devi tirare più forte e più lungo se vuoi essere competitiva». Poi l’avevo guardata fissa negli occhi e allargando le braccia ero andato oltre: «Credimi, non c’è altro sistema: o lo fai o rimani dove sei!». Poi sulla scia della sincerità avevo impostato la proposta: io mi sarei tenuto sulla dovizia dei particolari, lei avrebbe fornito maggiori lumi circa il suo stato d’animo.

Avevo usato un tono fermo ma vero e quanto ne venne fuori era sufficiente a cancellare residue remore, dando nuova luce a due occhietti a mandorla rimasti fin lì criptati. Seguì anche un sorriso a tutta bocca e un «Ok, you’re right» che mi rincuorò fin sopra i capelli. Avevamo trovato il giusto ibrido tra una contemplazione tutta sua e un fare ciarliero tutto mio. Una via di mezzo tra il cinema meditativo di Kurosawa e quello logorroico di Woody Allen.

«Dimmi qualcosa in più», se ne uscì d’un tratto provando a spingere sui colpi. «Allora, dai», ripartivo in tromba, invasato di grande ottimismo, «…e muovi quei benedetti piedi!» lasciavo andare in tono più capitolino che anglosassone. Per l’intero allenamento fece scintille e fu un continuo incitarsi alle cose da fare. «Mi sento meglio», dice al termine del lavoro sprizzando parole ricolme di positività. «Era ora”, chiudevo lapidario, salutando con un sorriso l’arrivo di un chiarimento tanto atteso. L’indomani si gettò con decisione nel derby con Rika Hiraki, connazionale dal buon tennis ma troppo leggera per quella che ormai cominciava a essere una giocatrice di spinta. 6/2 6/3 l’esito finale, cullato da un entusiasmo marcatamente italiano e da una gioia prettamente nipponica. Al secondo turno Conchita Martinez non concesse nulla e con un rovescio affettato che non temeva confronti, la forte spagnola, giocò anguille sguscianti dall’inizio alla fine e i punti scivolarono via rapidi, tanto rapidi da non poterne trattenere che alcuni, i sufficienti a lasciare il campo a testa alta. Meraviglia delle meraviglie, dopo la doccia mi disse: «Sento che sto facendo cose nuove e sono molto soddisfatta”

Seguì un dialogo breve, lineare, rivelatore al punto da gettarmi in confusione. Scoprivo, in quella giovane donna dal fare ermetico, una concezione diversa dell’insegnante, vissuta con un rispetto che nella mia ignoranza avevo scambiato per insoddisfazione. Ero stato precipitoso! Avevo toppato con atteggiamenti caramellosi che avevano prodotto l’esatto contrario! L’astro nascente del tennis giapponese era in cerca di semplicità, di riposte normali e di un rapporto senza patina. Su di me, quel Wimbledon del ‘97 aveva prodotto effetti inaspettati mettendo in dubbio tutte le certezze di cui mi ero fin lì nutrito e giorno dopo giorno mi ero convinto che su quell’erba ben curata di Church Road anche Socrate e Budda avrebbero trovato un giusto compromesso sul modo di crescere tennisti campioni.