Con i suoi 170 cm, il Peque avvicina il ‘record’ di Solomon di quarant’anni fa. Agli inizi, per pagare i viaggi, con la sua famiglia vendeva braccialetti di gomma dopo la crisi argentina del Novanta. Ora è tra i grandi ed è in semifinale a Parigi.
C’è tutto Diego Schwartzman nelle cinque ore e otto minuti che gli hanno regalato la prima semifinale Slam e la top-10 nel ranking. Il ‘Peque’ è tra i grandi, in tutti i sensi, al termine di una corsa ad ostacoli lunga 28 anni. Con i suoi 170 centimetri d’altezza, l’argentino avvicina il particolare ‘record’ detenuto da Harold Solomon (168 cm), che negli anni ’80 si spinse sino al numero 5 delle classifiche mondiali raggiungendo addirittura una finale Slam a Parigi (quella del 1976 vinta da Adriano Panatta). Tempi e materiali diversi, sino a qualche anno prima Rod Laver poteva permettersi di giganteggiare e diventare il tennista più vincente dell’epoca nonostante l’1.73 di altezza. Quella di Schwartzman, invece, può davvero considerarsi una ‘mission impossible’. Soprattutto per il modo in cui Diego ha spiccato il volo, partendo dal nulla e attraversando assieme ai suoi cari la profonda crisi argentina degli anni Novanta.
La famiglia Schwartzman poteva permettersi una vita agiata: un’azienda di abbigliamento e gioielli ben avviata, una casa in Uruguay dove poter godere dell’estate nei mesi di dicembre e gennaio. Poi il buio vissuto durante l’infanzia di Diego, il più piccolo dei quattro figli: il governo che taglia le importazioni, papà Ricardo che spendeva capitali per ottenere i materiali dall’estero, mamma Silvana che provava a rivolgersi addirittura alla Cina. Bancarotta e vita da ricostruire. Lo sport, però, nella vita di Diego non è mai mancato: con un nome così, a Buenos Aires, un tentativo nel mondo del calcio non poteva mancare. La nonna gli procurò le divise di Real Madrid e Barcellona, casacche utilizzate per scambiare due colpi a tennis con il padre. E con il tempo che passava, il Peque ha compreso quale fosse la sua strada, nonostante a calcio segnasse caterve di gol. Dare il via a una carriera tennistica in condizioni economiche disastrose, però, non è assolutamente una passeggiata. Viaggi da pagare, camere poco costose da trovare e un solo letto condiviso con i genitori. Gli Schwartzman iniziarono a vendere anche i braccialetti di gomma rimasti dalla precedente attività commerciali e Diego ricorda con un sorriso quei momenti: “Era divertente, diventò una sfida con mia mamma: andavamo in giro con una borsa piena di bracciali tra una partita e l’altra, era una gara a chi vendeva di più“. La competitività, d’altronde, non è mai mancata. In un mondo sportivo sempre più dominato da atleti ben strutturati fisicamente, il metro e settanta di Schwartzman spesso e volentieri ha provocato porte chiuse in faccia. “Ora dico che l’altezza non conta, ma quando a 13 anni un dottore mi disse che non sarei più cresciuto mi sentii devastato. Non sapevo se continuare col tennis”.
I rimorsi per i sacrifici compiuti dalla famiglia per permettergli di viaggiare e coach che non volevano saperne: “Non mi mentivano, erano semplicemente realistici. Mi dicevano che non sarebbe stato semplice. E avevano ragione”. Poi la svolta con gli allenamenti, a 15 anni, con il futuro top-10 Juan Monaco e Maximo Gonzalez. Una carriera junior pressoché inesistente (un solo Slam disputato nel 2010) ma Diego non aveva più dubbi: una volta diventato professionista non si è più voltato indietro. Il servizio, con la racchetta che quasi tocca il terreno in fase di preparazione, non potrà mai essere la sua arma principale ma Schwartzman è diventato uno dei migliori ribattitori del circuito. Quando nel 2018 superò Kevin Anderson (203 cm) disse di essersi ispirato a “Davide e Golia letto a scuola”, ma adesso i giganti non fanno più paura. Tra loro c’è anche il ‘Peque’.