Gli Internazionali d’Italia hanno compiuto un miracolo in questi anni, ma guai a pensare che l’estensione prevista dal piano Gaudenzi da sola risolva tutto. Per fare l’ultimo salto servono un impianto all’altezza e la capacità di «sbloccare» la burocrazia

Normalmente in Italia prima si costruiscono gli impianti sportivi, e poi si fa il progetto. Anche quando c’è, lo si modifica, lo si aggiusta, quasi sempre quando la frittata è già fatta. Basta vedere come sono ridotti, tanti di quegli impianti, fatiscenti se non chiusi, con l’erbaccia a crescerci attorno. Non occorre andare lontano, a Treviso dove il Velodromo progettato per i Mondiali in pista è fermo da un anno, a metà lavori. Siete mai stati a Cortina? Entrando in paese, svetta il trampolino delle Olimpiadi, quello del 1956. Ci scorrazzano le galline. Uno spettacolo indecente. Problemi di permessi, di burocrazia, di Provveditorati alle opere pubbliche che non sono in grado di svolgere il loro compito, qualche volta di Sovraintendenze. Alla fine però quello che manca è quasi sempre il banale apriscatole perché non c’è semplificazione che tenga se non si parte dalla percezione della tecnologia produttiva necessaria perché anche aprire una scatoletta, nell’assenza di regole certe e burocrazia, è una cosa semplice che diventa difficile.

ITALIANI MAESTRI

Bastano queste considerazioni per comprendere che il passaggio degli Internazionali di Roma a evento cardine dello sport italiano è un miracolo a tutti gli effetti. Di quelli, a dire la verità, nei quali noi italiani siamo maestri. Tu guardi Wimbledon, o Flinders Park dove si giocano gli Australian Open, impianti avveniristici, pensi agli investimenti fatti, e ti chiedi se mai Roma con le sue statue di marmo sarebbe mai potuta diventare un piccolo Slam. Maddai, ma scherziamo. Gran contesto, grande storia, ma…. Eppure a Roma ci hanno sempre creduto, e qui sale in ballo quell’atteggiamento sfrontato e strafottente che hanno tutti i romani doc. Quelli, i romani autentici, sono figli di Nerone, l’imperatore incendiario: nella vita hanno visto tutto, nulla li stupisce, nessun risultato è impossibile. Madrid, per dire, per diventare un piccolo Slam come Roma ha dovuto trovare un investitore-banchiere da sempre legato al tennis, lon Tiriac, e costruire un impianto da zero con un investimento colossale. Struttura imponente ma non bella, in periferia. Lo stesso Miami. Roma no, ha investito enormemente di meno (quasi tutto per il Centrale, unico vero investimento strutturale) macinando nel frattempo un record dietro l’altro. 230.000 spettatori quest’anno. Incasso di sola biglietteria 16 milioni di euro, +20% rispetto al 2019 (ultimo anno cui ci può riferire), ma addirittura più 1000% negli ultimi 20 anni. Dieci volte tanto. Fatturato complessivo, inclusi i 23 sponsor del torneo, 41,6 milioni di euro. Numeri che fanno la differenza.

SALTO IN…. LUNGO

Seguendo il filo di questo ragionamento, non è tanto il passaggio da 9 a 12 giorni a fare effetto, quanto il riconoscimento di un percorso. Che mette basi da lontano, cioè da quando il torneo, e non era un secolo fa, rischiava di uscire dal novero dei Masters 1000. È storia, non è un dettaglio. La Germania, mica l’ultimo paese, un torneo di eccellenza non ce l’ha, negli anni dei Becker, Stich e Graf non è stata capace di impostare nulla, ha addirittura perso Amburgo. È il momento del massimo impegno, adesso, del salto quantico. Il passaggio da 64 a 96 giocatori uomini comporta un riallineamento del montepremi, e maggiori costi organizzativi. Ci vorrà per forza uno scostamento di bilancio ma, come dice Gianni Milan, vicepresidente Fit, (l’intervista completa è in queste pagine) <<a fronte di maggiori costi avremo anche maggiori ricavi, potendo offrire i primi del mondo per due weekend non è detto che i margini di profitto si riducano. Gli sponsor? Rinegozieremo i contratti».

LAVORARE SULL’IMPIANTO

Un impianto non solo bello ma più moderno, più inclusivo. Su questo si dovrà lavorare. Più servizi, più coinvolgimento e non solo in «quei» 12 giorni. Più fermate dell’autobus, per dirne una ad esempio. Sembra banale, ma è tutto. Non potendo ridurre la burocrazia, ci vorranno più burocrati per saperla gestire. La bellezza assoluta, poi, è come l’uccello del Paradiso: inafferrabile. Ma intanto prepariamoci a impedire che le varie amministrazioni blocchino le idee. Non tutto si può normare. Ci vuole discrezionalità, e ci vuole chi la eserciti. L’apriscatole, appunto.