Uscite entrambe dalle qualificazioni, in una giornata particolare per il tennis italiano, Martina e Sara hanno reagito diversamente agli ostacoli del destino

Foto Ray Giubilo

Martina e Sara, la doppia faccia di una giornata particolare, di quelle che ti strappano i nervi e sfilacciano l’anima. Che ti lasciano il dolce e l’amaro in bocca e dividono alla cieca giusto e ingiusto, volontà e destino, benedizione e sfiga.

Trevisan ed Errani, lontane quasi in tutto, ragazze diversamente interrotte arrivate a Parigi per giocarsi nelle qualificazioni un lembo di carriera, darsi una risposta che valga più di un minuto alla domanda: che ci faccio io qui? Una la risposta l’ha trovata. L’altra – in un cestino, fra la carta straccia di una partita assurda – forse l’ha smarrita.

Martina dal campo si è tolta per quattro anni, scegliendo di dire basta, adesso mi stacco, faccio altro, questo amore (per il tennis) è diventato una camera a gas. Sara dal tennis è stata cancellata per un anno, ma per volontà altrui. Ricorderete: la storiaccia del doping, le pasticche finite nell’impasto dei tortellini, la lunga sensazione di scontare una colpa ingiusta. L’incapacità di spiegarsi, il rancore sordo della quasi regina (numero 4 del mondo, finalista a Parigi e Roma) finita in esilio.

Gli Slam erano il mondo di Sarita, e il paradiso a cui Martina la fiorentina, volto intenso da ritratto del Masaccio, braccio benedetto, sembrava destinata già a sedici anni quando spopolava fra le juniores e vinceva partite anche fra le pro. Una predestinata, che la racchetta se l’era trovata in mano da bebè. Poi la vita si era messa di traverso. Le turbolenze in famiglia, la pressione di stare al passo con le aspettative che il fratello maggiore Matteo, numero 1 del mondo juniores nel 2007, che oggi fa il maestro fra Prato e Firenze, si era perso fra infortuni (tanti), fragilità e scelte sbagliate. I Trevisan sono una famiglia sportiva, papà ha giocato in serie B con la Sambenedettese e in C2 col Modena, mamma è maestra di tennis. Il dna però non è sempre uno scudo, né una garanzia. Così un giorno del 2010 Martina ha alzato le braccia. Battuta, prima che le partite vere iniziassero, da un’avversaria vigliacca. «I miei si stavano separando – ha raccontato – avevo i riflettori puntati addosso, e aggiungiamoci anche un paio di infortuni. L’anoressia mi ha trovata già spiazzata. Pensandoci ora è stato un modo per farmi prendere sul serio, per gridare tutto il mio malessere». Martina ha iniziato a fare la maestra a Pontedera, ha ritrovato l’equilibrio, vinti i tie-break con il corpo e la mente. Tutti tranne uno. «Ero serena. Ma mi sono accorta che non ero davvero felice». Dopo quattro anni di cesti, le mancava il tennis vero, l’adrenalina dei tornei. Nel marzo 2014, con l’aiuto di Giancarlo Palumbo e di tutto staff del centro federale di Tirrenia, ha ricominciato. Prima tappa l’Itf di Caserta – quarti di finale arrivando dalle qualificazioni – poi è tornato il resto. La classifica, la convocazione in Fed Cup, la qualificazione in Australia. E ieri la gioia immensa alla fine di una partita stregata contro Coco Gauff, la stellina improvvisamente impaurita, snervata, infelice di trovarsi lì.

Sara ieri è uscita male dal braccio di ferro con la jella, forse l’ingiustizia, i crampi veri o presunti di Kiki Bertens, il blocco mentale che le impedisce di servire, l’ironia pesante, crudele dei social. Voleva questa vittoria, dopo tre anni di calvario, di silenzi rabbiosi, di fame di vendetta – e se l’era anche meritata. Ma quando le è scivolata di mano ha reagito male, ha buttato fiele, sparando un «vaffanculo» da contralto in faccia al nero della delusione, alle lacrime di dolore che sulla faccia di Kiki si mescolavano al sorriso. «L’ho vista al ristorante, stava benissimo – ha sibilato – Non mi piace quando mi prendono in giro».

Anche Martina poteva perderlo, il filo della partita, il senso di stare in campo: quando hanno provato a truffarle il finale, a rubarle il punto che la portava al match point sul 5-3 del terzo set. Una palla fuori di un palmo, così chiaramente out che Martina non si era nemmeno spesa a colpirla: macché. La faccia di gomma della giudice di sedia Marijana Veljovic le diceva no, carina, guarda che ti sbagli. Le ripeteva, magari senza rendersene conto (nel calcio un tempo si chiamava: sudditanza psicologica) che dall’altra parte della rete – impaurito, ma pieno di sponsor – ci stava il futuro del tennis. Mica una parentesi provinciale come lei.

Un po’ si è ribellata mademoiselle Trevisan: ha protestato, si è disperata, ha guardato negli occhi la bugia. Poi si è voltata, uno scatto netto delle spalle, un colpo di spugna alla rabbia. «Quando mi hanno fatto il furto non l’ho presa bene, perché era proprio fuori, non era nemmeno vicina. Ma al cambio di campo mi sono detta che sono cose che capitano. Poi lei ha messo quattro prime nel game del 5-5, e da lì sono riuscita a resettare e andare avanti». A tenere duro, a guardare in faccia la baby Coco che nemmeno con l’aiutino riusciva a vincerla la partita, anzi la buttava, due doppi falli e un diritto sulle tribune.

Con gli inciampi della vita ci hanno combattuto tutte e due, Sara e Martina; in modi diversi, in tempi diversi, arrivando da storie diverse. La differenza, almeno ieri, l’ha fatta il senso della battaglia: una lottava contro il mondo. L’altra, semplicemente, per se stessa.