La testimonianza del ritorno di Federer in campo smuove nel nostro biblista ricordi, speranze, alimentando l’attesa per l’Australia 2021

Luminoso sabato mattina d’autunno. La pandemia imperversa e si allungano le prime ombre di una nuova cattività. Termino un lavoro su un salmo che canta: “Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite, e quando le ripeto sono tre”. Numeri, sempre numeri, fortissimamente numeri… Mentre mi diletto nell’aggiornamento sportivo, l’algoritmo di Google, ormai a conoscenza dei miei gusti, mi segnala:

Spezzoni di match dell’Artista, con una particolarità: le riprese degli improvvisati registi sono fatte dagli spalti, a livello del campo, dunque osserviamo i colpi di Roger come se fossimo dietro o davanti a lui, vicinissimo. Nitore del gesto, piedi danzanti, giocosità, come nel cortile di casa; fenomenale tempismo del serve and volley (sembra facile!); passanti di rovescio che centrano la cruna dell’ago, nell’unico centimetro indisponibile all’avversario; risposte perfette a servizi che viaggiano alla velocità di proiettili (quelli di Isner sembrano rimpicciolire il campo); semplicità nel gioco a rete, pallonetti disegnati quasi per celia. Ma quale altro tennista fa queste cose? Ma quanto ci manchi? E poi la presenza di tanto pubblico, che accompagna sonoramente: sì, un giorno torneremo sugli spalti!

Tonificato, mi imbatto in un messaggio postato dal Re su twitter: “Back to work!”, accompagnato da allegri emoticon e da una foto che lo ritrae intento al servizio, circondato da alberi tinti dei colori autunnali, come in una natura morta improvvisamente viva.

Dunque gli allenamenti procedono bene, il ritorno in campo si avvicina.

Cercando commenti in rete, colgo di sfuggita una foto di Roger a Melbourne il 30 gennaio scorso, mentre saluta il pubblico dopo la sconfitta in semifinale. È la sua ultima partita, un’era geologica fa! Davvero sono passati solo dieci mesi? Torno a riguardare l’immagine, sintesi esistenziale forse al di là della volontà del suo autore, certamente del suo soggetto. Mentre Roger applaude chi lo applaude, si staglia dietro di lui, sfocato, il grande orologio di una celebre marca: segna il tempo che passa (o si è fermato?) ma è inquadrato in modo tale da mimare un’aureola sulla testa del Magnifico. Mi si perdoni la blasfemia, ma non posso non osservarlo, anche per ragioni di “lavoro”: tempo e santità.

Ancor più sollevato, sento emergere dentro di me tre parole che vi lascio, per queste settimane che ci richiedono una nuova resistenza, ma che almeno ci condurranno al rientro di Roger in Australia: tempo, desiderio, santità.

Il tempo, che da febbraio sembra lentissimo, “si è fatto breve”, direbbe Paolo di Tarso. Mancano poco più di due mesi (ah, la relatività di Einstein!) agli Australian Open. Nella sua lettera l’Apostolo aggiungeva: “passa la scena di questo mondo”. Per il momento ci accontenteremmo che fosse arginato questo maledetto virus e passasse il tennis nella bolla, con gli applausi registrati e un gioco di mera potenza.

Il desiderio è etimologicamente l’attesa di una stella (de-sidera) che torni a squarciare la notte e ci fornisca una bussola per ritrovare un orientamento: nel loro piccolo, i colpi inattesi e sorprendenti del Re possono darci una spinta in questa direzione. Esagero: possono tornare a far splendere non una stella, ma il sole. Al lavoro, fotografi, per presentarci in questo modo la pallina gialla di nuovo accarezzata da Sua Fluidità!

Infine, oso, santità. Siamo soliti associarla a un retrogusto dolciastro e moralistico, a odori stantii di sacrestie. No, biblicamente santità significa “alterità”, “differenza”, dunque vita! Non voglio inoltrarmi in sentieri teologici, ma ci capiamo. In ogni caso, e senza tema di smentita, esiste un’alterità, una differenza di Federer rispetto a ogni altro tennista.

Buona, trepidante attesa del ritorno della “differenza rogeriana”, che sarà accompagnata dalla meraviglia. Con un video, due foto, tre parole: in attesa che si diradino le nubi e si riveda il Re Sole, sorridente splendore di bellezza diffusa.