Gli Australian Open in corso, con ben tre americani nei quarti nel tabellone maschile, hanno riacceso un faro sugli Stati Uniti. Il movimento tennistico ha bisogno del contributo di questa grande nazione. Che sia l’inizio di una nuova era?

Comunque si concluda il torneo in corso, gli Australian Open hanno certificato il prepotente ritorno in massa del tennis americano, soprattutto maschile, al livello che compete a questo grande Paese. Non c’è un posto come gli Stati Uniti in cui lo sport rappresenta la miglior chiave di lettura per comprendere e conoscere lo spirito e il modo di vivere delle persone. Il rapporto con lo sport comprende il modo in cui lo si pratica, lo si conosce, e lo si guarda, allo stadio o alla tv. L’arte, la religione, la cultura, la politica, la letteratura e il teatro sono probabilmente settori di maggior prestigio in America ma lo sport ha un quid di unico e straordinario perché le tendenze che prendono corpo laggiù hanno immediati riflessi in tutto il mondo.

E’ inutile sottolineare che per il tennis, per tutto il tennis, gli Stati Uniti sono importantissimi. Per la popolarità dei suoi protagonisti, per l’audience televisiva, per l’eco sui social, e per il mercato. In America si giocano molti grandi tornei, c’è molto interesse, ci sono grandi aziende, e ci sono moltissimi soldi, immessi ma soprattutto da immettere nel mondo del tennis. Le grandi Corporates, le Agenzie migliori sono lì, non in Cina. Con tutto il rispetto, è diverso avere un giocatore dominante serbo, o spagnolo, oppure americano. Per tanti, troppi anni agli Stati Uniti sono però mancati i giocatori, almeno quelli in grado di ricordare all’appassionato che dei 28 numeri 1 del mondo che si sono succeduti dal 1973, ben 6 sono americani. Se il buco creatosi in 19 anni (ultimo numero 1 Andy Roddick nel 2004) venisse colmato, ne guadagnerebbe tutto il movimento. Se in un torneo ci sono giocatori americani che vincono, se ne parla di più.

A Melbourne si sono giocati addirittura 3 derby a livello di quarto turno, una cosa impensabile solo un paio d’anni fa. E’ importante che, dopo anni di assenza, ci siano oggi molti giocatori competitivi. Non tutti scaleranno le classifiche, ma qualcuno di sicuro. Korda, che a casa parlerà anche cecoslovacco ma è americano a tutti gli effetti, è il più indiziato, ma non è l’unico. Alcuni, giovanissimi, sono piantine da coltivare, ma è benefico che la semina sia già oggi così estesa. Forse stanchi di farsi rappresentare nei grandi tornei soprattutto da Jim Courier e John McEnroe nella veste di commentatori, gli americani stanno mettendo in campo tutte le loro migliori risorse, anche economiche, per recuperare un ruolo di primo piano nello sport individuale più popolare al mondo.

La macchina del reclutamento si è rimessa in moto, inoltre per formare tennisti si è abbandonata la politica del college, che rappresenta un parametro importante per gli sport di squadra, ma non funziona nel tennis. Un ruolo determinante lo hanno giocato naturalmente le Accademie, non solo quella di Nick Bollettieri. In America ce ne sono molte di alto livello, sparse ovunque in quell’immenso territorio. Sono molto attraenti per un giovane americano, abituato concettualmente a spostarsi di casa presto e senza tanti problemi. I bamboccioni, come un politico italiano li ha definiti, negli Stati Uniti non esistono perché per abitudine i ragazzi escono di casa non appena terminato il liceo o la scuola analoga. Moltissimi vanno al college, altri hanno scelto il tennis perché oggi sanno con buona certezza che, ovunque decidano di andare, cresceranno tennisticamente. Con provenienze e percorsi diversissimi, è infine curioso che i giocatori migliori visti in Australia abbiano un copyright tennistico molto simile. Se sarà un nuovo modello, lo sapremo presto.