Il gigante statunitense è il protagonista inatteso degli Internazionali d’Italia: sulla terra aveva vinto solo due partite ATP in carriera, mentre al Foro Italico ne ha già portate a casa tre guadagnandosi i quarti. Servire coi trampoli lo aiuta, ma nel suo tennis c’è altro. Roma continua a portare bene agli Stati Uniti: nel peggior periodo della loro storia ne avevano bisogno

Non solo boom boom aspettando il tie-break

Il primato romano degli Stati Uniti

Trovare uno statunitense ai quarti a Roma fa strano, eppure gli Internazionali d’Italia hanno sempre portato bene agli americani, sin dalla primissima edizione del 1930, quando al Tennis Club Milano vinse il mitico Bill Tilden. Addirittura, sono proprio gli Stati Uniti il paese a vantare il maggior numero di vincitori diversi nell’albo d’oro: il record di titoli è della Spagna con 15 (ma con 7 giocatori), mentre gli undici successi degli States portano nove firme diverse. Dopo Tilden, prima dell’avvento dell’Era Open vinsero anche Wilmer Hines, Budge Patty e Barry MacKay. Fra 1977 e 1979 la doppietta di Vitas Gerulaitis, nel 1983 il successo di Jimmy Arias, poi i due consecutivi di Courier (1992-1993) e il più importante titolo sulla terra battuta della carriera di PistolPete Sampas, che nella finale del ’94 lasciò cinque game in tre set a Boris Becker. Nel 2002, invece, l’ultimo titolo a stelle e strisce con Andre Agassi, campione a spese di Tommy Haas. L’ultimo risultato degno di nota è invece la semifinale di Isner nel 2017, lo stesso traguardo che rincorrerà Opelka venerdì, in una sfida-occasione contro il qualificato argentino Federico Delbonis.

Intanto, Reilly il gigante può godersi il suo secondo quarto di finale in un Masters 1000 dopo quello di Cincinnati 2020 (giocato a Flushing Meadows), e magari dimenticare per qualche ora quell’ostilità verso l’ATP che l’ha reso uno dei più grandi critici della gestione Gaudenzi. Già, perché a comandare il tennis sparatoria c’è una testolina che ragiona, la passione per la moda nel mito del “diavolo” Anna Wintour, quella per l’arte che la scorsa settimana a Madrid l’ha portato a farsi un giro al Museo del Prado (anche a Roma qualcosina da vedere lo dovrebbe trovare…), e anche un occhio al sociale. Prima del Miami Open, per esempio, ha deciso che avrebbe donato 100 dollari per ogni ace a un’associazione benefica che offre sostegno alle persone colpite da una lesione del midollo spinale, e non è la prima volta che cerca di spostare l’attenzione su temi più importanti rispetto a racchette e palline.

USA senza top-30 per la prima volta: i ricambi non arrivano

La cavalcata romana di Opelka, che in carriera ha vinto due titoli entrambi sul cemento, è ossigeno puro per il tennis statunitense, che proprio questa settimana vive il suo periodo più grigio di sempre. La statistica dice che per la prima volta da quando esiste la classifica computerizzata non hanno alcun giocatore fra i primi trenta del ranking ATP, ma il dato sarebbe ancora più severo se esistessero degli archivi precedenti al famoso 1973. Colpa – si fa per dire – di John Isner, che per evitare il tracollo degli States doveva arrivare in semifinale a Madrid, e invece la scorsa settimana ha perso ai quarti contro Dominic Thiem. Ma è stato proprio Isner a tirare avanti la baracca negli ultimi anni (e l’ha fatto bene, con anche un titolo Masters 1000 e tanta settimane da top-10), quindi il dito va puntato altrove, in direzione di quei ricambi che nelle ultime stagioni hanno faticato a farsi strada. Il migliore oggi è Taylor Fritz, al numero 31, mentre da lunedì Opelka sarà almeno numero 40.

Troppo poco per un paese dai numeri e dalla storia degli Stati Uniti, ma da qualche parte bisogna pur ripartire, e in attesa della nuova generazione Opelka può essere uno dei volti del presente, specialmente ora che ha capito di poter giocare discretamente anche sul rosso. E pazienza se del prototipo del buon giocatore da terra battuta non ha nulla o quasi, l’importante è vincere le partite. A Roma gli sta venendo particolarmente bene.