L’ex davisman dice la sua sulla nuova nomina di Volandri a capitano di Coppa Davis, commenta il buon momento italiano e sulla quarantena di Melbourne ammonisce: niente scuse
“Magari in futuro mi cercheranno. Ho molto da dare”
In un colpo solo, la panchina della nazionale azzurra ha fatto un salto in avanti di quasi trent’anni. Da Corrado Barazzutti, ultimo fra i trionfatori nella Coppa Davis del ’76 a salire in sella (prima di lui era toccato a Panatta e Bertolucci), si è passati a Filippo Volandri, uno dei volti del tennis azzurro del nuovo millennio. In mezzo, un’intera generazione dimenticata che ha fatto le spese del capitanato da record di Barazzutti. È quella di Omar Camporese, di Diego Nargiso e di Paolo Canè, uno che ai ricordi della Davis deve gran parte della sua popolarità. In particolare alla sfida vinta da solo con la Svezia nel ’90, a Cagliari, battendo Wilander 7-5 al quinto set nel singolare decisivo terminato al lunedì, con la voce di Giampiero Galeazzi ad accompagnarne le gesta.
Oggi il 55enne bolognese gestisce la sua piccola scuola tennis a Gorle (alle porte di Bergamo), fa il telecronista per Eurosport e Rai, e ha ancora il fuoco dentro. Ma nonostante non abbia mai celato l’interesse verso la panchina azzurra, la chiamata della Federtennis non è arrivata.
La decisione di non confermare Barazzutti ha sorpreso tanti. Anche lei?
«Non proprio, dopo vent’anni ci poteva stare. Se penso ad altri sport dove basta sbagliare un paio di partite per perdere il posto, Corrado ha fatto un miracolo a rimanere sulla panchina così a lungo. Non l’ho avuto come capitano, ma ne ho potuto comunque apprezzare le qualità. Si è sempre messo in gioco, e con tutti i ragazzi ha saputo creare un rapporto di fiducia e stima, trasmettendo la sua esperienza e la sua capacità di leggere gli incontri e dare i consigli giusti».
Si è passati dai davisman degli Anni ’70 a Volandri, ergo la sua generazione è stata saltata. Come mai?
«È una domanda che andrebbe fatta ai diretti interessati. Ma non voglio far polemiche, da tanti anni ho scelto di adottare una linea di pace. Vivo tranquillo e non voglio arrabbiarmi più».
Non ha mai nascosto che fare il capitano di Coppa Davis le piacerebbe eccome.
«Ma non mi sono mai fatto avanti ufficialmente, e mai nessuno è venuto a cercarmi. Magari lo faranno in futuro, chi può dirlo. Penso che potrei essere d’aiuto. Grazie al mio carattere e alla mia esperienza sento di aver molto da dare».
Le spiace non essere mai stato preso in considerazione?
«Per la nazionale ho sempre sputato sangue, e mi spiace che il mio bagaglio di esperienza, così come quello di tanti miei colleghi che hanno raggiunto ottime classifiche e dato molto alla maglia azzurra, non sia mai stato valorizzato per la crescita dei giovani. Non è detto che tutti coloro che sono stati buoni giocatori poi diventino in automatico dei buoni insegnanti, ma forse valeva la pena fare almeno un tentativo. Potevamo essere un prezioso valore aggiunto».
In cosa Paolo Canè sarebbe un buon capitano?
«Saprei sempre tenere viva in un giocatore quella fiammella che a volte sul campo si abbassa, o si spegne del tutto. Un capitano deve essere bravo ad aiutare i giocatori a trovare la chiave per vincere una partita, ma anche a capirli, ad ascoltarli nei momenti difficili e fargli trovare gli stimoli per entrare in campo affamati come dei leoni».
“Volandri mi piace, spero abbia un po’ di polso”
Come giudica la scelta di Volandri?
«Volandri mi piace. Ha esperienza, conosce bene i giocatori perché ha smesso da poco e ha subito iniziato a lavorare con i nostri giovani. Mi piace come parla e come si pone, mi sembra un buon esempio. Mi auguro che abbia un po’ di polso: è molto importante per un capitano dare la propria impronta e trasmettere carattere, generando un clima sereno. È la chiave per far funzionare una squadra di Coppa Davis».
Volandri ha ricevuto l’incarico nel miglior momento possibile.
«Trova giocatori di esperienza e giovani di grandi potenzialità. Di solito a un capitano che inizia il mandato si lascia del tempo per costruire il gruppo, mentre oggi il gruppo c’è già ed è molto competitivo. Il solo dubbio che mi viene in mente può essere legato alla coppia di doppio, o meglio a chi affiancare a Simone Bolelli».
Da uomo che alla Davis deve tanto: il format attuale ha davvero tolto fascino alla competizione?
«Capisco che sia necessario stare al passo con i tempi, ma di certo non è più la Coppa Davis di una volta. Si respirava un’atmosfera unica: le trasferte, il pubblico che si trasformava in una tifoseria e tanti altri aspetti. Nelle finali di Madrid non ho visto nulla di tutto questo. È capitato che alcuni match finissero in piena notte, con 40 persone in tribuna. Non esattamente una cornice degna della storia di questa competizione».
Dal 2021 le Finals saranno divise in tre sedi. È come se gli organizzatori avessero ammesso l’errore?
«Tre sedi sono meglio di una, è già meno brutto. Anche perché la nazione che organizza e gioca in casa è avvantaggiata, per una lunga serie di fattori».
Davis Cup, Atp Cup, Laver Cup, addirittura la Hopman Cup che l’ITF ha appena detto di voler ripristinare. Il tennis sta diventando uno sport di squadra?
«Mi aggiorno spesso, leggo, mi informo, e sinceramente a volte mi capita di fare un po’ di confusione: è come se fossero tanti piccoli campionati a squadre. Chi organizza ci vede del business e ci prova, è comprensibile. E dato che l’entusiasmo di giocatori e pubblico non manca mai vuol dire che le novità funzionano. Ma continuo a pensare che fosse meglio la vera Coppa Davis di una volta».
“La situazione di Melbourne non deve diventare la scusa per chi perde al primo turno”
Le notizie che arrivano da Melbourne parlano di un grande caos. Cosa ne pensa?
«Mi spiace per chi è capitato sui voli con a bordo delle persone testate positive all’arrivo in Australia: dover stare due settimane in una stanza senza potersi allenare è sicuramente uno svantaggio. Ma le regole le conoscevano. Vedere i giocatori palleggiare contro i vetri o contro i materassi fa sorridere, anche se dopo pochi giorni la voglia di competere prende il sopravvento e sottostare alle regole si fa più complicato. Due settimane senza allenarsi aumentano il rischio di infortuni, anche se dopo i tanti mesi senza tornei del 2020 i giocatori dovrebbero essere più preparati che mai. Da valutare anche la capacità di ognuno di reagire mentalmente alla situazione di confinamento, e all’eventuale svantaggio nei confronti dei colleghi».
Paolo Canè come avrebbe vissuto due settimane chiuso in una stanza d’hotel?
«Oggi ho 55 anni e le regole le accetto, a vent’anni… un po’ meno. Sono sempre stato un tipo irrequieto, credo che avrei accusato molto di più rispetto ad altri l’obbligo di passare due settimane “in gabbia”. Non è che avrei fatto chissà cosa, ma è naturale che ognuno reagisca a modo suo. Per me sarebbe stato complesso, come sicuramente lo è per tanti altri in questo momento. L’importante è che questa situazione non diventi la scusa preferita di chi perderà al primo turno dell’Australian Open».
E Paolo Canè in un ipotetico match di Coppa Davis a porte chiuse?
«La tifoseria mi ha sempre dato molto coraggio, specialmente nei momenti difficili. Ma un tennista sa come trovare gli stimoli anche da solo, sia perché quando si costruisce è abituato a giocare davanti a pochissima gente, sia perché in fondo ognuno gioca per se stesso. Detto questo, sicuramente il pubblico dà una carica diversa: entrare in uno stadio pieno non è uguale che farlo davanti a delle gradinate completamente vuote. L’affetto della gente può darti la forza di continuare anche quando non ne hai più. In generale, credo che i primi ad accusare l’assenza del pubblico siano i più forti e i più esperti, abituati a giocare sempre davanti a tantissima gente. I giovani si adattano prima, come in tutte le cose».
L’Italia del tennis, oggi, vive una situazione attesa da anni. La sua opinione?
«Mi auguro che i nostri ragazzi continuino in questa direzione. Dico sempre di non mettere troppa pressione ai giovani, ma la pressione fa parte del gioco. Chi vuole arrivare in alto deve imparare a conviverci. Più il livello si alza, più fa la differenza la capacità di saper reggere mentalmente e fisicamente lo stress di una partita e di un risultato, e anche del desiderio di ottenerlo. Abbiamo un gruppo di ragazzi di grande prospettiva, Sinner per primo. È sulla strada giusta: è un ragazzo sveglio, con le idee chiare, mi sembra pronto per arrivare lontano. Ha bruciato tante tappe, e dargli tempo non significa aspettare degli anni. Dice di non badare troppo alla classifica, e gli credo. Vuol dire che ha dei chiari obiettivi in testa e sa di cosa deve preoccuparsi e di cosa no. Può solo migliorare».
Da ex giocatore, da insegnante, da telecronista, da appassionato: quanto può essere importante, per l’intero sistema tennis, la situazione che si è creata?
«Non può che far bene all’intero movimento. In Italia ci sono giocatori sempre più forti e tornei sempre più importanti. L’arrivo a Torino delle ATP Finals rappresenta una ventata di aria fresca e di passione: mi auguro che si possa giocare sin dalla prima edizione senza limitazioni di pubblico. Quanto ai giocatori, dare ai ragazzini dei punti di riferimento può essere determinante per la loro crescita, e se i modelli sono dei loro connazionali meglio ancora. Li vedono più vicini, meno impossibili da raggiungere. Questo li spinge a lavorare meglio e a fare più sacrifici per andare lontano».