Il campioncino danese ha carattere da vendere, ma nella finale di Monte Carlo si è incartato nel suo stesso ego, concedendo via libera a Rublev. E ora qualche domanda dovrebbe porsela…

William Shakespeare vede in Amleto la frustrazione dell’uomo di fronte al male e tratteggia il principe danese come un soggetto irrisolto, prigioniero del suo tormentato dilemma. Nessuno sa se anche il resto del regno fosse afflitto da analoga paranoia, quel che sappiamo è che l’ Holger Rune dei giorni nostri presenta tratti caratteriali tanto intraprendenti da sfatare ogni incertezza circa la personalità dei sudditi danesi formato nuovo millennio. Se poi giocano anche a tennis, allora son guai. Chiedere ad Andrey Rublev, fresco vincitore a Monte Carlo, che se l’è vista brutta sull’unico centrale al mondo con affaccio al mare.
Programmato alla sua velocità di crociera, il russo ha esordito coltivando diagonali e lungolinea intercalati da qualche smorzata di alterna fortuna. Un tennis caratteriale che gli è valso un meritato primo set, seppure stiracchiato e povero di spunti. Poca cosa per schiacciare un teenager un po’ impunito giunto da sud di Copenaghen per turbare i sogni anche ai più forti al mondo. Una gioventù bella e incosciente, la sua, che gli ha guadagnato la seconda frazione senza tante incertezze e che appena dopo l’ha issato fino alla palla del possibile 5-1 al terzo con una serie di spericolatezze tecnico-tattiche ai limiti della balistica. La stessa esuberanza, tuttavia, che l’ha indotto a perdere undici punti in pochi game concedendo a Rublev di riprendere i colori del bombardiere a oltranza. Di quel passo, sono giunti al pettine due disgraziatissimi smash e un doppio fallo inatteso che hanno servito al russo un break su un piatto d’argento portando alla luce i limiti attuali del nordico rampante.
Per Rublev non poteva esserci chiusura migliore di un limpido ace per agguantare nel Principato il suo primo «1000» in carriera, dopo che un paio di anni fa aveva dovuto lasciare, su quello stesso campo, il passo a un emergente e irriducibile Tsitsipas.
Quanto a Rune, vent’anni a fine aprile, il tennis gli arride per il modo di giocare e per quell’ego molto forte, talora sopra le righe, che la dice lunga circa una forte autostima accordata a se stesso senza lesinare nulla. Una brutta sconfitta, tuttavia, quella appena patita per mano del russo che, per una volta almeno, dovrebbe gettarlo nell’afflizione amletica che sappiamo, coniugata per l’occasione nel dubbio se diventare o meno il grande campione che il mondo si aspetta.