L’italiano e lo spagnolo hanno messo in pratica le linee guida di un nuovo tennis che unisce attacco e difesa, tocco e potenza, tenuta e recupero
Diciamo la verità: fosse apparso Fritz oltre la rete, la semi consumata oggi sull’Hard Rock Stadium di Miami, non avrebbe avuto lo stesso sapore.Ma iI campo aveva detto Alcaraz e Alcaraz è stato! Il nascente dualismo tra lo spagnolo della Murcia e Jannik Sinner, ci ha concesso in visione una meravigliosa sfida maturata sulle rive dell’Atlantico, giunta appena dopo quella omologa disbrigata ai bordi del deserto californiano due settimane or sono. Al momento di andare in campo, nessuno dei cinque scontri diretti registrava un epilogo scontato, né offriva indizi tali da consentire facili pronostici circa l’esito finale di questo téte à téte appena archiviato. L’unica sfumatura poteva arrivare dalla leggera prevalenza del fresco numero uno del mondo nei risultati sul duro, poca cosa per un conteggio che ignorava l’amaro matchpoint fallito dall’atesino agli ultimi Us Open.
Tutto appeso all’incertezza, dunque, e solo quando l’alba ha strizzato l’occhio alla Vecchia Europa, l’epilogo della disfida non ha più offerto il fianco a dubbi di sorta. Sotto lo sguardo assonnato dei più fedeli, Sinner ha fatto suo il confronto portando l’avversario sul crinale del rischio fino a mandarlo fuori giri. Per non cadere nel tentativo di cronaca non aggiungo altro, se non per dire che quanto andato in onda a Miami in questo primo giorno di aprile, non è il solito pesce bugiardo appiccicato alla schiena di qualcuno, ma pura sostanza mostrata a fronte alta dai due massimi esponenti del nuovo che avanza. Esattamente quella riassunta nel punto rocambolesco del 4/2 15/0 per l’italiano nel primo parziale. Una fase in cui ha trovato conferma quella concezione del tennis, ormai in voga, che sa amalgamare in modo sorprendente tenuta e recupero, attacco e difesa, tocco e potenza. Un concetto universale di nuovo conio che si identifica nel passante messo a segno da Sinner dopo venticinque durissimi scambi.
Un rovescio stretto che la dice lunga sulla lucidità mentale necessaria a cogliere il punto anche dopo sforzo prolungato. Qualcosa che rimanda al valore simbolico di una prova sportiva che ha entusiasmato sia i cultori del bel gioco, sia gli addetti ai lavori sempre in cerca di risvolti inediti. Un valore che allude a una rivisitazione in atto nell’uso antico dei colpi, una visione che pone risposta e servizio sullo stesso piano, così come rimette il lob al centro della difesa e la smorzata alla testa dei cambi di ritmo. Un balzo in avanti che assegna al passante lo status di spauracchio per chiunque azzardi l’attacco senza averlo accuratamente apparecchiato, e che concepisce difesa e aggressione con una facilità che lascia di stucco. Un punto di riflessione che regala al mondo un tennis a mezza via tra l’eccessiva frammentazione del serve & volley e il randellamento cieco del corri e tira. Un tennis, insomma, che racconta di uno stupendo dualismo acceso dalle circostanze, degno di quelli analoghi vissuti dai Fab Four in questo periodo storico. Un nuovo modo di guardare alla prestazione come a un confronto ricco di spunti, invenzioni orientate a quell’agonismo coraggioso alla Becker che fa tanto bene allo spettacolo. Un tennis che sicuramente non si negherà ai palati più esigenti del binomio palla-racchetta, e che comunque deve fare ancora i conti con quello pericolosamente attuale di Djokovic e Nadal.