Nell’intervista rilasciata in esclusiva al Corriere della Sera, il tennista romano ha rivelato alcuni dei momenti più difficili della sua carriera
Matteo Berrettini si appresta a tornare in campo. Dopo Wimbledon, il romano si è concesso un po’ di vacanza e ora è pronto all’esordio al National Bank Open di Toronto che lo vedrà opposto al francese Gregoire Barrere.
Il romano ha parlato in una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera, dove è tornato a raccontare i suoi inizi nel tennis: “I miei genitori, che erano e sono soci in un circolo del tennis, hanno depositato una racchetta tra le mie mani quando avevo tre anni. Ma non mi piaceva, volevo fare judo, arti marziali. Poi fu mio fratello a convincermi che il tennis era più divertimento che pura fatica. A otto anni ho ripreso la racchetta e non l’ho mai più posata. Il rapporto tra fatica e divertimento è cinquanta e cinquanta, ma alla fine sono sempre riuscito a divertirmi, nella fatica. Mi piace competere, mettermi alla prova, cercare costantemente di superare i miei limiti. Sul campo da tennis non ho segreti, conosco e riconosco ogni singola emozione, ogni gesto, ogni fragilità e ogni potenza. Il mio corpo e il mio cervello non hanno più segreti. Nel tennis, nella solitudine di quello sport che pure è sotto gli occhi di tutti, mi sento come un entomologo di me stesso. Ogni gesto è pensato, vissuto e sofferto. Perché da ogni gesto dipende l’esito di ciò che fai”.
Sull’aspetto mentale del gioco: “Il tennis ti insegna a perdere. Anche i migliori, anche nelle migliori stagioni, devono bere il calice della sconfitta. Io odio perdere, ma ho sempre usato la sconfitta per migliorarmi. Per me è un motore più grande della vittoria. Non sentirmi più in quel modo mi spinge a cercare il modo per rimuovere quel difetto che mi ha fatto perdere una partita o un torneo. A Wimbledon, l’anno della finale. Ho fatto un percorso incredibile e può starci, di perdere con Djokovic. Ma ero così vicino al titolo che ancora rivedo il film di quel match per capire dove potevo fare meglio“.
I momenti difficili sembrano ormai essere le spalle, ma superarli non è stato facile. Berrettini ha infatti raccontato di aver anche pensato al ritiro: “Nell’ultimo anno ho vissuto troppi strappi mentali e fisici. Ci sono stati dei momenti in cui la mia testa e il mio corpo non erano allineati, chiedevo troppo all’uno o all’altro. Clinicamente è stato uno strappo dell’obliquo interno. Credo di aver chiesto troppo al mio corpo. Era legato al fatto di non competere. Non poterlo fare, in appuntamenti importanti, mi ha fatto conoscere il buio. E il buio sembra non avere fine, sembra ti inghiotta perché invece di stare fermo e rifiatare, ti scavi da solo un abisso. Sono stati momenti brutti, che non mi sono piaciuti. Ma sono stati fondamentali per farmi ritrovare le ragioni della gioia di fare quello che ho iniziato da bambino e che ha occupato tutta la mia vita. Non mi sono mai sentito solo. Però in quei giorni mi sono sentito spaesato, a disagio. Mi sembrava ingiusto che, per qualcosa che atteneva al mio fisico, dovessi ingurgitare tanta cattiveria. Estraniarsi o allontanarsi perché qualcuno parlava male di te mi sembrava un atto di debolezza. Ma ora mi rendo conto che stavo facendo come Don Chisciotte con i mulini a vento e quindi ho rallentato molto, quasi spento del tutto. Mi sono accorto che il mio stato d’animo cambiava in relazione al tono di cento persone che scrivevano i loro legittimi, ma spesso ingiusti, commenti che arrivavano direttamente nelle mie mani. Mi sono accorto che il mio umore aveva il dovere di dipendere da ben altro. Oggi, però, mi sento bene dentro e ho il sorriso, quando scendo in campo. Ma tante volte ho avuto voglia di dire basta. Nel 2020 ho avuto un’annata complicata e ricordo di aver fatto il pensiero, che mi aiutava a dormire, di prendere il passaporto, non dire nulla ad anima viva e fuggire dove nessuno avrebbe potuto trovarmi. Mi è capitato di pensarci, nei giorni bui. Pensavo ma perché devo subire tutta questa pressione, il senso di colpa per il mio corpo ferito… La vita è una, non ha repliche. Ma poi il tempo, il confronto con gli altri mi hanno fatto capire che io sono felice solo se scendo in campo e respiro quell’atmosfera. E sono infelice se non lo faccio“.