L’articolo di Alessandro Nizegorodcew, tratto dal numero di agosto della rivista ‘Il Tennis Italiano’, che ripercorre l’inizio della carriera di Matteo Berrettini

Matteo Berrettini ha conquistato la semifinale degli Australian Open, diventando il primo italiano nella storia a spingersi così avanti in quel di Melbourne Park. La redazione vuole riproporre l’articolo scritto da Alessandro Nizegorodcew per l’uscita di agosto della rivista ‘Il Tennis Italiano’, in cui si raccontano gli inizi della carriera del tennista romano, attraverso le parole del suo maestro Stefano Vannini.

In quel periodo Berrettini aveva da poco giocato la sua prima finale a Wimbledon, con la vittoria di oggi su Gael Monfils ha raggiunto la sua terza semifinale Slam.

Divertiti, perché male che va perdi”. Matteo Berrettini ha ripetuto questo mantra più volte, a microfoni sia accesi che spenti, a partire da quel torneo di New York che nel 2019 lo ha lanciato nel Gotha. Una frase che arriva da lontano, dai suoi primi anni nel tennis. A pronunciarla prima di ogni match era Stefano Vannini, maestro che, insieme a Raul Pietrangeli, ha forgiato il piccolo Matteo al Circolo Magistrati della Corte dei Conti di Roma. “La prima volta che gliel’ho sentito dire mi sono commosso – racconta Vannini, che ha accompagnato la crescita di Berrettini per tanti e lunghi anni di tennis giovanile –, oggi ci scherziamo continuamente via messaggio. Matteo non è mai cambiato, è un ragazzo fantastico e un tennista straordinario. Tanti dicono che da piccolo non era promettente e che si piangeva addosso, ma la realtà è un’altra”. Jacopo e Matteo Berrettini iniziano presto a giocare alla ‘Corte’ e subito lasciano intravedere ottima qualità. “C’era una differenza sostanziale tra i due. Jacopo, che all’epoca aveva 4 anni, arrivava al campo correndo come un matto, felice, urlando sempre al fratello ‘dai che siamo in ritardo’. Matteo camminava, con la racchetta in mano, quasi svogliato, mentre Jacopino era già in campo a palleggiare. L’amore per questo sport non era ancora sbocciato, anche se si intravedeva già qualcosa di interessante”. Papà Luca e mamma Claudia, qualche tempo dopo, arrivano da Stefano e Raul: ‘Matteo non vuole più giocare a tennis, vuole fare judo e praticherà anche il nuoto’. Dopo due anni, però, fa marcia indietro. “Ed è tornato trasformato – spiega ancora il maestro Vannini -. Alto, un pochino più goffo, ma con in testa un’idea: giocare a tennis. Sembra incredibile ma a 8 anni Matteo Berrettini aveva deciso che quella era la sua strada. Si allenava tutti i giorni, sempre, dal lunedì alla domenica; se aveva un ‘buco’ si metteva a giocare con i bambini del minitennis. Non ha mai saltato una sessione e, allo stesso tempo, andava bene a scuola. Un soldatino. E quelle pochissime volte in cui era stanco o svogliato, non si nascondeva dietro a delle scuse; veniva da me e diceva semplicemente: ‘Ste, oggi non mi va’. Sul piangersi addosso in campo, invece, è vero in parte. Era in effetti così ma, come oggi, era subito pronto e carico a giocarsi il punto successivo senza mai ‘sciogliere’. Lavorava tanto, senza mai chiedere o protestare, ligio al dovere. All’epoca curavo anche la sua preparazione atletica e, se gli lasciavo un programma da svolgere da solo, lo portava a compimento alla lettera. Non è una cosa banale per un ragazzino di 11/12 anni”.

La carriera giovanile di Berrettini prosegue senza acuti, ma il ragazzo migliora, fatica, ha un obiettivo chiaro da raggiungere; e per farlo bisogna giocare tornei in giro per l’Italia e per l’Europa. “Quante traversate in macchina abbiamo fatto, mentre lo rimbambivo di De Gregori, Fossati, Battiato e tutti i grandi cantautori italiani. Quando è morto Battiato, Matteo mi ha mandato un messaggio bellissimo che recitava più o meno così: ‘quando l’ho saputo ho pensato subito a te e a quei viaggi infiniti in macchina. So che per te è una grande perdita e ti ringrazio per avermelo fatto scoprire’. “Scoprire” è un verbo fondamentale nella crescita umana di Berrettini. La curiosità è una delle sue forze. “Dopo ogni partita Matteo voleva che io e Raul gli facessimo l’analisi dettagliata del match; voleva capire cosa era andato e cosa no. Poi però, quando si andava a mangiare o nei momenti di relax, non si parlava mai di tennis quanto invece di cinema, libri, musica. Il bagaglio culturale di Berrettini, anche se sembra strano da dire per un atleta, è una delle sue armi. La testa è stata ed è la sua forza. Quando andavamo a Tirrenia per i raduni nazionali, Matteo non è in prima fascia. Voleva però sempre andare a vedere i migliori, ascoltare i loro maestri, capire in cosa potesse migliorarsi. In una di quelle occasioni ho capito che poteva davvero diventare un giocatore importante: stavamo svolgendo un allenamento con Stefano Napolitano, io ero accanto a suo padre (e allenatore; ndr) Cosimo; Matteo ha tirato un dritto lungolinea incredibile, molto simile a quelli che vedete oggi in televisione. Ginocchia quasi in terra, velocità di braccio e di mano, la capacità di vedere quegli unici 5 centimetri liberi dove tirare. Cosimo si è fermato, è venuto da me e ha esclamato senza giri di parole: ‘Ste, qui so’ tutti fenomeni, ma l’unico che arriva è questo qua. Il puledro è quello vostro, è avanti anni luce’. Matteo si arrabbia quando perde, rosica tanto, per dirla alla romana, ma accetta la sconfitta; soprattutto se l’avversario ha giocato bene, sa riconoscerlo dopo aver analizzato la partita. Ed è così che si cresce, riuscendo capire come e dove migliorarsi senza dare troppo peso al risultato. “Sono stato felicissimo che, andato via da qui, Matteo abbia scelto Santopadre come coach. Vincenzo è un ottimo allenatore, ma ancor di più una grande persona. Ha saputo proseguire, in grande, ciò che noi avevamo iniziato in piccolo”. Gli allenamenti del piccolo Berrettini alla Corte dei Conti sono emblematici. “I ragazzini vogliono sempre giocare i punti, da noi organizzavamo spesso a fine allenamento un ‘Big Tournament’ e Berrettini ovviamente non vedeva l’ora di partecipare. A volte, però, si doveva rimanere in campo a fare dritti su dritti su dritti. Gli dicevo: ‘Mattè, 150 dritti a entrà devi fa, le regole so queste. Ce stai o non ce stai?’. Ovviamente ci stava. Sempre. Anche il 24 o il 26 dicembre. Anzi, era lui a dirci: ‘c’è un torneo importante, devo allenarmi’. Credo sia nel DNA di famiglia. Da 20 anni ormai gioco con Claudia, la mamma. Se ci alleniamo alle 12, lei arriva alle 11.15 e si riscalda…”. Testa da campione, umanità, curiosità, cultura, ma non si può sottovalutare il tennis di livello altissimo sin da piccolo, anche se i risultati non arrivavano. “Ricordo quando Matteo Contino, altro maestro che all’epoca era alla Corte dei Conti, accompagnò Berrettini a un torneo junior a Lecce e il giorno dopo mi disse: ‘Ste, ma questo tira più forte in allenamento che in partita!’. Tutti dettagli che, uniti, fanno di Matteo Berrettini il campione che è oggi, quel giocatore arrivato a un passo dalla conquista di Wimbledon. “Ho visto la finale insieme a Contino e a Tomasz Drozd, altro maestro che ha visto crescere Matteo insieme a noi. Ho tremato per tutto il match. Quando ha chiuso il primo set ho esultato più che a un gol di Francesco Totti! Djokovic purtroppo non è umano, ma durante il torneo ho pensato che davvero questo potrà diventare il suo regno”.