Il magnifico risultato della Trevisan al Roland Garros è reso ancora più speciale dal difficile periodo sofferto e superato da Martina, che grazie ai suoi cari e allo sport che ama ora è finalmente tornata a sorridere
La vicenda di Martina Trevisan, rinata dopo anni di depressione, è una di quelle storie “animali” che piacciono tanto agli uomini. A pensarci, adesso che è finita e si sono spenti i riflettori, piace ancora di più. Perché istruttiva, malinconica e commovente come sanno esserlo certe storie di sport.
Contro il Qi negativo, Martina ha generato energia positiva. Facile, a dirlo adesso. Ma prima? Non è una vergogna attraversare momenti particolarmente difficili nella vita, e nemmeno toccare il fondo. L’importante è ammetterlo, prima di tutto a se stessi. Lo racconta bene John Kirwan, per molti anni capitano dei mitici All Blacks neozelandesi, in un libro coraggioso e insieme toccante dal titolo “Gli All Blacks non piangono. La mia vita, la mia battaglia”.
Kirwan, che con gli All Blacks aveva vinto la Coppa del Mondo nel 1987,è improvvisamente caduto in depressione all’apice della carriera. Crisi d’ansia, attacchi di solitudine, bisogno di protezione. Difficile da immaginare per un atleta alto, robusto, carismatico. Un colosso. Un mito, in patria. L’immagine stessa della salute. Eppure fragile. Nato per vincere, John Kirwan aveva tutto. Tranne una cosa : il diritto di piangere davanti agli altri, di confessarsi, di raccontarsi. Perché gli All Blacks, come suggerisce il titolo, non piangono. Mai.
Come ne sarebbe uscito, Kirwan – che ha giocato anche in Italia, alla Benetton Treviso, e ha poi sposato una ragazza italiana, Fiorella – lo racconta senza paura e senza nascondere nulla. Due elementi lo hanno salvato: un aiuto professionale, e lo sport. Circondato inizialmente da persone che, in buona fede, lo invitavano a “ricomporsi, reagire”, ha capito che la risposta giusta era proprio quella opposta: “lasciarsi andare”.
Perché “ricomporsi” va bene quando stai male fisicamente, ma non quando sei depresso. Allora devi sfogarti, piangere se serve. E avere una via d’uscita.
Per Martina Trevisan, proprio come per Kirwan, la via d’uscita è stata lo sport, e ricorrere all’aiuto di uno, o una specialista. In fondo, la gente va ad allenarsi ogni giorno, passa ore in palestra. Perché non andare da uno specialista e passare un’ora e mezza a lavorare per il proprio benessere mentale? Soprattutto quando è necessario, vitale.
In questo difficile percorso, la famiglia e gli amici stretti sono sempre al centro di tutto. L’esempio più importante è inutile cercarlo fuori perché lo si ha quasi sempre in casa. Poi, avere qualcuno a fianco che ti conosca e che ti sappia ascoltare. Per John Kirwan fu il primo allenatore, quello che lo aveva tirato su da ragazzo, per Martina un ruolo fondamentale lo ha giocato (è il caso di dirlo) il suo allenatore Matteo Catarsi. Pare – lo dicono gli esperti – che nella prima, delicata fase in cui non si riesce a stare da soli, non siano importanti le domande ma una sola risposta: “non lo so”. Di fronte alla pressione e alle preoccupazioni, di fronte all’instabilità emotiva, dire “non lo so” diventa allora un’occasione di ricrescita personale e professionale. Quante volte Martina avrà detto “non lo so”? Molte, certamente. Del resto, di tutte le creature che respirano e si muovono sulla terra, nessuna è più debole di quella umana.
Per fortuna c’è lo sport, una palla. Ci sono il rugby e il tennis. Che ti danno una linea, un percorso, un obiettivo. Per Martina Trevisan, precipitata anche nel buco dell’anoressia, è stata un’occasione di riscatto. E’ come un dialogo. Butti la palla di là, torna di qua, la rimandi di là. Non c’è psicanalista migliore. Il tennis che ti tiene in vita per poter parlare con qualcuno attraverso una pallina. E magari ti capita di rinascere al Roland Garros.