A Boston si è celebrato lo status quo del tennis: una schiacciante superiorità del Vecchio Continente sul Resto del Mondo. A mettere d’accordo tutti è il totem Laver, già tanti anni fa esempio di classe, lealtà e cortesia quando fu portato a Roma dal grande Carlo della Vida insieme alla troupe di Kramer
Vi ricordate quando il sole illuminava solo yhankee e canguri? Altri tempi perché gli astri, si sa, sono volubili e già da tempo sembrano beatificare la terra che del tennis fu la culla. Insomma l’effetto traino dei Fab Four si fa sentire e il vecchio mondo sembra in preda a un profondo fermento racchettaro. E su uno sfondo fumo di Londra gessato di bianco, la Laver Cup celebra al TD Garden di Boston una leadership tennistica ormai da anni sotto gli occhi di tutti.
Il tema conduttore non va oltre quello della grande esibizione ma l’evento offre bel gioco in campo e restituisce dai bordi l’immagine di campioni che tifano i compagni con l’entusiasmo del campionato giovanile.
A voler andare oltre, vale la pena osservare che la manifestazione è lo specchio fedele di quanto accade sul circuito ‘pro’, in quanto riafferma una tradizione europea storica e innegabile. Sarebbe lunga risalire al Jeau de Paume francese del XII secolo o a quel vizioso di Enrico VIII che, già nel 1530, oltre a cambiare mogli, praticava con sollazzo lo sport della racchetta. Cinque secoli separano le vicende nostrane dal fondatore della chiesa Anglicana e anche se nel frattempo ha cambiato cento volte pelle, il tennis continua a condividere con l’Europa origini lontane e profonde affinità elettive.
Al vecchio continente appartengono i primi dieci della classifica mondiale, quasi tutti al di sotto dei cinque lustri. E a testimoniare l’abbondanza, la compagine europea si è concessa il lusso di rinunciare ai Fab Four che seppure acciaccati sono pur sempre Fab. A dirla tutta, avrebbe potuto schierare almeno altri due squadroni pescando tra i primi venti, mentre il Resto del Mondo ha dovuto grattare il barile per metterne in piedi sì e no una. Risultato: quarta edizione, quarta vittoria per una terra che ha dato i natali a Platone, Dante Alighieri e Voltaire, tanto per non disturbarne altri.
Una bella manifestazione che ripropone la metafora della tanto bistrattata Europa politica che non vuol saperne di arrivare: giocatori rivali sul circuito ma pronti a fare muro verso quel che rimane del pianeta tennis. Ma a Boston è andato in onda anche un motivo di riunificazione planetaria: il tributo a Rod Laver, campione infinito, beatificato anche lui dagli astri per i due poker in bacheca e i modi da persona per bene.
Una celebrazione che fa di me un privilegiato. I casi della vita! Il mio capitò a metà degli anni sessanta quando, appena adolescente, fui voluto dal buon Carlo Della Vida a far da raccattapalle alla troupe di Jack Kramer in arrivo al palazzo dello sport di viale Tiziano. Tra tutti quei fenomeni ce n’era uno mancino dai capelli rossicci e veloce come un razzo che al suo turno di battuta porgeva le corde rifilandomi un semplice “ball please”. Non so se sorridesse o se invece fossero i tratti del viso a riflettere una garbata aria bucolica. Sta di fatto che, timido ed emozionato qual’ero, poggiavo l’occorrente per giocare e di rimando udivo una voce serafica che mi investiva regolarmente con un amabile “ thank you “!