In libreria dal 29 ottobre, ‘Maestro Nascente’ ci fa rivivere gli inizi sul campo di Jannik e il suo percorso verso il professionismo, attraverso una narrazione che si intreccia all’impresa delle Next Gen Finals e alle storie dei grandi campioni dello sport. Ne pubblichiamo alcuni estratti
«Ce ne sono due buoni…»
«Dopo Anversa è stato Jannik a dirmi: “Voglio giocare le Next Gen Finals”». Riccardo Piatti, il coach di Jan, ha molta esperienza e il pallino della programmazione. È convinto che per diventare professionista, assolto il capitolo del talento, ci sia una strada da percorrere. Un metodo da seguire. Una serie di tappe, quasi sempre obbligate. A volte forzate.
In quasi quarant’anni ne ha allenati tanti che valevano fatica e biglietto: Cristiano Caratti, Renzo Furlan, Omar Camporese fra anni Ottanta e Novanta, Novak Djokovic quando il Djoker era un cucciolo dallo sguardo curioso, non ancora il killer di oggi. E poi Richard Gasquet, Ivan Ljubicic, Milos Raonic. Etnie, tipologie e anche generi diversi di tennista, considerato che senza monocolo, ma con la stessa ammirata dedizione di Erich von Stroheim, fra 2019 e 2020 ha accompagnato la diva Sharapova sul viale del tramonto (tennistico). Sinner è il suo assegno in bianco per la pensione. Te lo dice anche lui, scoccando lo sguardo azzurro da ragazzino dietro un reticolo di rughe bruciate dal sole. Ma per incassarlo non bisogna smarrire la strada.
Il Piatti Tennis Center è piazzato su uno dei balzi che a Bordighera scendono verso il mare. Bordighera è il luogo dove è iniziato il tennis in Italia. Centoquarantadue anni fa una delle casse del maggiore Wingfield, con dentro tutto il necessario per montarsi un campo da tennis in giardino, arrivò a destinazione nella piccola colonia inglese affacciata sul mare di Imperia, 3.000 expats alla disperata ricerca di un passatempo, e fu subito Bordighera Lawn Tennis Club. Era il 1878, a Worple Road i Championships erano nati un anno prima. Primo presidente, l’inevitabilmente inglese Charles Lowe. I due campi che si possono vedere ancora oggi, con la chiesa presbiteriana sullo sfondo, risalgono ad allora, anche se un tempo correvano paralleli, e non perpendicolari come oggi, alla Club House.
Piatti aveva anche pensato di piazzarla lì, la sua Academy, poi ha preferito arroccarsi in collina. Sei campi, palestra, un ristorante vista mare con foresteria in convenzione. Tutto molto cool, fra l’high-tech e il familiare. Il luogo adatto per ricominciare a scrivere la storia guardando dall’alto l’approdo sacro.
«Ce ne sono un paio di buoni,» mi dice nel 2017 «una è una ragazzina metà italiana e metà americana, l’altro è quel ragazzo lì. Si chiama Sinner.» Un cesto di capelli rossi montato sul corpo di un fenicottero che si muove con grazia tutta sua sul campo. Dietro gli occhi larghi, che tengono sotto controllo il mondo, c’è un sogno verticale.
Sembra di sentire Pelé
Il 2019 è un anno non facile da gestire, sia per Jan sia per Riccardo. L’inizio è stato fulminante: sedici partite vinte di fila fra il Challenger di Bergamo e il Future di Santa Maria di Pula, con l’altro Future di Trento in mezzo. Non grandi tornei. Nemmeno grandi nomi. I migliori: Salvatore Caruso, che un anno dopo entrerà fra i primi 100, e Gianluigi Quinzi, il fratello maggiore mancato di Jannik, quasi un doppelgänger: la passione per lo sci, il flash della vittoria under 18 a Wimbledon. La comparsata alle Next Gen Finals di due anni prima. Anche ‘GQ’, da bambino prodigio, è stato allenato da Piatti, prima di smarrirsi in un turnover di tecnici che nemmeno Zamparini nel calcio. La differenza, lo scarto originario, è che Quinzi da bambino avrebbe continuato volentieri a sciare, mentre Jannik gli sci se li è tolti da solo.
Andrea Spizzica è un ex tennista romano traslocato in Trentino che insieme a Heribert Mayr è stato il primo maestro di Sinner quando era ancora un ragazzino fra i tanti. «La cosa che mi ha sempre sorpreso di Jannik è la sua estrema allenabilità durante i tornei. Mi spiego. Arriva quasi sempre il momento in cui l’allenatore ti chiede di provare una soluzione diversa, qualcosa che non è il tuo. Sono stato giocatore anch’io, attorno al numero 300 del mondo, so come funziona. Ci sono quelli che hanno le palle per farlo, e quelli che si fanno prendere dai dubbi: “Chissà se il maestro ha ragione… forse è meglio se ‘tengo’… se aspetto che sbagli l’altro…”. Jannik faceva sempre quello che gli dicevi, anche se non gli piaceva. E gli riusciva.» Il ragionamento è lo stesso che ha spinto Federer e Nadal a cambiare gioco a 30 anni suonati, a 36 addirittura nel caso di Roger. L’alternativa era iniziare a perdere.
«Jannik è uno che ha sempre voluto vincere, non accettava la sconfitta nemmeno contro di me. Era avanti 5-2 al tie-break, e poi lo superavo. Non immaginate i pianti di rabbia.» «Ricordo gli ultimi raduni di Jannik con la nazionale. Un tecnico gli ripeteva che il suo gioco era stare a fondocampo, e puntare sulla regolarità, non cercare di risolvere tutto in due colpi. Ma Jannik era magro, segaligno, se stava a fondo finiva travolto. “Non voglio giocare così!” mi scriveva in messaggi disperati. Aveva ragione: per vincere doveva entrare in campo, giocare d’anticipo. Solo così con la sua palla troppo leggera aveva una possibilità di spuntarla.» Fatte le debite proporzioni, sembra di sentire Pelé: «Più il mio allenatore mi diceva di non dribblare, e più io dribblavo».