Il prodotto WTA attira (ancora) investitori: con CVC una grande chance

Il recente ingresso di CVC Capital Partners nel circuito WTA dimostra che il fondo ha visto delle potenzialità nell’universo del tennis femminile e punta a farle fruttare economicamente. Può essere il periodo giusto per restituire un’identità al Tour, accrescerne il valore (e quindi i montepremi) e aggiustare il calendario

Iga Swiatek (Foto Ray Giubilo)

Il ritiro di Serena Williams ha lasciato il tennis femminile senza un vero personaggio in grado di varcare i confini del circuito per entrare nella narrativa mainstream. Poteva essere Naomi Osaka, ma dopo aver toccato il picco la giapponese ha iniziato una discesa e ora ha altre priorità (la gravidanza); oppure poteva essere Emma Raducanu, la cittadina del mondo che ha vinto lo Us Open a 18 anni e da allora colleziona contratti pubblicitari di lusso, ma sul campo sta latitando. Così, in attesa di una nuova star, il Tour non può fare altro che rimanere aggrappato a qualche figura mediamente interessante, che piace al pubblico ma non smuove particolari interessi. Eppure, c’è comunque chi crede nelle potenzialità di quello che, va detto, è pur sempre lo sport professionistico femminile più visto al mondo. La prova è nel recente accordo chiuso col fondo di private equity CVC Capital Partners, annunciato una decina di giorni fa. La WTA ha reso noto di aver venduto per 150 milioni di dollari il 20% delle sue quote, in un’operazione che porterà alla nascita di una nuova società – con Steve Simon presidente e un amministratore delegato ancora da nominare – deputata alle operazioni di promozione, marketing, broadcasting e soprattutto vendita dei diritti televisivi.

Si tratta di un passaggio molto importante, sia perché garantisce una liquidità della quale la WTA ha un gran bisogno dopo la perdita dei tornei in Cina (ai quali era legata una buona fetta della sostenibilità economica dell’intero carrozzone), sia perché vuol dire che il prodotto risulta ancora appetibile agli occhi di chi vuole fare affari. Perché il fondo CVC, ex proprietario della Formula 1 acquistata da Bernie Eccleston e poi rivenduta con il ritorno più prolifico nella storia dello sport business, in quello è specializzato da 25 anni. Dopo essere entrato nel mondo dei motori, con auto e MotoGP, ma anche nel calcio (Liga spagnola e Ligue 1 francese), nel rugby col Sei Nazioni, nel volley, nel cricket e in altre discipline, ecco l’approdo nel tennis, inseguito da un paio d’anni. C’erano loro, infatti, dietro all’ipotesi di una fusione fra ATP e WTA della quale si chiacchierava a fine 2021: poi, il sindacato maschile ha proseguito sulla propria strada lanciando un piano strategico indipendente, così è nato un accordo esclusivamente con la WTA. Hanno intravisto del potenziale e hanno deciso di scommetterci, provando a svilupparlo per fare profitti. Alla compagnia interessano (giustamente) quelli, che però dipendono dallo sviluppo del prodotto. Ergo, la WTA trova comunque sul tavolo una preziosissima opportunità di crescita.

Se vorranno ottenere i profitti desiderati, da CVC dovranno impegnarsi per aumentare il valore del sistema “tennis femminile”, investendo quindi sul brand, sull’immagine delle giocatrici (e dei tornei) e sul rapporto con gli appassionati, per attirare quel pubblico giovane che anche il presidente ATP Andrea Gaudenzi pone sempre come una delle priorità per il futuro. In un periodo storico nel quale il tennis sta cercando il suo nuovo assetto, che da quest’anno vede tre Masters 1000 – Madrid, Roma e Shanghai – estesi a 12 giorni (con Cincinnati e Canada che faranno lo stesso nel 2025), potrebbero esserci le condizioni per provare a mettere mano a ciò che non funziona – o non funziona più – nel mondo WTA. Uno dei passaggi chiave, peraltro evidenziato anche nel comunicato che annuncia la partnership, riguarda un calendario che va necessariamente rivisto dopo la perdita dei tornei in Cina (prima per la pandemia, poi per la presa di posizione sul caso Shuai Peng). La vecchia direzione di Stacey Allaster aveva spostato nel continente asiatico una parte sempre più ampia del Tour, ma – portafoglio a parte – si può dire che la mossa non abbia pagato. L’interesse non è decollato e gli stadi quasi sempre vuoti non hanno fatto bene all’immagine internazionale del circuito, che ha bisogno di ritrovare un’identità che non dipenda solamente dalle protagoniste.

Un altro punto sul quale lavorare è legato allo storico spinoso tema dei montepremi. Fatta eccezione per i tornei del Grande Slam, che da oltre 15 anni garantiscono lo stesso prize money sia agli uomini sia alle donne (il Roland Garros fu l’ultimo ad accodarsi, nel 2007), negli altri tornei combined del circuito gli uomini guadagnano di più e dove i montepremi si equivalgono è spesso la WTA a intervenire per colmare la differenza nei premi. Un tema (ri)sollevato di recente da Denis Shapovalov, che ha attaccato il gender gap spiegando che oggi una donna ha meno chance rispetto a un uomo di poter vivere da professionista. Un ragionamento fondato, che però – qui viene il nocciolo della questione – non è figlio di una differenza di trattamento per ragioni di sesso, ma nasce dal semplice fatto che i tornei incassano (molti) più soldi dalla vendita dei diritti televisivi per la prova maschile, quindi nella divisione dei ricavi la quantità che finisce nelle tasche dei giocatori ATP è maggiore. Se fosse più alta la richiesta per gli eventi femminili, guadagnerebbero di più le donne. Detto ciò, visto che il problema parte dalla vendita dei diritti tv, qualora CVC riuscisse nell’obiettivo di accrescere il valore del prodotto riceverebbe maggiore potere in fase di negoziazione. Quindi, incassando più soldi potrà distribuirne di più. Ci guadagnerebbero tutti.

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