A 10 anni dal trionfo di Francesca Schiavone al Roland Garros, ripubblichiamo uno straordinario reportage sulla vita privata della più forte tennista italiana di sempre
Il calore di casa Schiavone
Quel sorriso che ti accoglie dal porticato. Quella cordialità genuina, senza veli, chiusa in un abbraccio di benvenuto è ciò che ti aspetti da una visita agli zii che non vedi da tempo. Nessun gesto cerimonioso o affettato: in casa Schiavone i “tagli” sono specialità di Francesca in campo.
Il profumo di rosmarino ci investe ma la quiete del dopopranzo ci circonda: i sensi tutti colgono gli indizi della beatitudine di campagna. Una striscia di orto fiancheggia il vialetto che conduce alla casa di Bornato, frazione di Cazzago San Martino, in provincia di Brescia, residenza estiva e di svago di mamma Luiscita e papà Francesco. “Qui mi sento come il Papa – ammette la signora – questa è la mia Castel Gandolfo”. E la mente non può che correre alla figlia e alle sue dichiarazioni mai banali, perché intimamente cariche di verità. Non ci sono dubbi: quel temperamento argentino si è alimentato da qui.
A una settimana dalla “fine del mondo” (la vittoria di Francesca al Roland Garros, ndr) le testimonianze sono ancora evidenti, a cominciare da uno striscione esposto dal balcone che, a nome di Francesca, dice “Grazie a tutti, ai bornatesi in particolare, per l’affettuosa accoglienza”.
E le espressioni dei genitori tradiscono l’innocente inconsapevolezza di chi, catapultato in un universo parallelo, fatica a riconoscerne i riferimenti. “In questi giorni è capitato di tutto – attacca papà Francesco, Franco per gli amici -. Gente che non sentivo da 50 anni si è fatta viva. Mi ha chiamato persino un mio compagno delle medie. Mi domando come fanno a vivere certe persone importanti. Così c’è da impazzire. Io non voglio notorietà”. “La semplicità e la libertà della persona per noi hanno un valore incalcolabile”, si inserisce la moglie.
E come dar loro torto. Da Bornato i coniugi Schiavone hanno seguito, passo dopo passo, i match di Francesca a Parigi. Insieme a pochi intimi. A ogni turno bollicine di Franciacorta e una torta. “Sapeste i dolci che ho cucinato in due settimane! Tra crostate, torte margherita, tiramisù…”, sorride Luiscita. Un rito che si è ripetuto a ogni vittoria, sino alla finale, quando il gruppo dei festeggianti si è magicamente ampliato. “Il venerdì avevo già esposto la bandiera – continua -. Vinca o perda, mi son detta, per me ha già fatto grandi cose. Ma il sabato io e Franco desideravamo stare soli, e quando si è presentato qualche amico ho finto che mio marito dormisse. Non per cattiveria; volevamo solo sentirci liberi di urlare e avere le nostre manifestazioni di gioia”. Così come chiunque, in qualità di tifoso o appassionato, abbia assistito all’incontro: baci, abbracci, sorrisi che non si trattengono dall’espandersi, visi inumiditi.
Uno tsunami di persone ad accoglierla
“Ha vinto il Roland Garros. Questa qua ha vinto il Roland Garros. L’avrò detto almeno dieci volte, a ripetizione – prende la parola Franco -. Abbiamo fatto talmente tanto chiasso che tra la tv, il campanello e i telefoni non sentivamo nulla. Pensavamo di esserci chiusi dentro e invece a un certo punto: pum pum pum. Sono entrati i vicini con le bottiglie e così sono iniziati i festeggiamenti. Quando poi dopo un’oretta ci ha chiamato Francesca il telefono era impazzito. Io avevo il magone e mi sono sentito rimproverare da lei: Papà non devi piangere, sei un uomo!”.
Il ricordo della giornata sarà anche stato promosso a storia, a quei racconti che prendono forma e si arricchiscono di dettagli ogni qual volta li si ripercorre, ma le emozioni, quelle faticano ad appiattirsi alla routine. Così mentre Franco, l’anima più riflessiva e razionale della coppia prosegue il racconto, Luiscita porta la mano sul viso e chiude gli occhi, ancora incredula.
Gli elementi sono i più classici: la figlia che al rientro dopo l’impresa viene accolta da una folla inneggiante; le premure di una madre, che desidera condividere con una ventina – si stima – di amici l’inatteso trionfo. Nell’affaire Schiavone però confluiscono troppe variabili: il volo mancato e l’arrivo a Bologna, anziché Verona, con conseguente ritardo, ma soprattutto l’eccezionalità dell’evento, che a catena scomoda televisioni, trasmissioni sportive, tifosi e curiosi da ogni parte della provincia.
Ci si ritrova così travolti da uno tsunami in carne e ossa. “Arrivava gente che nemmeno sapevo chi fosse – confessa la madre. E allora ho pensato: le persone che non conosco non entrano in casa, salutale tu da fuori Franco, non si sa mai. Per preparare qualcosa ho chiesto aiuto ai miei cugini: chi si è messo ai fornelli, chi ha sistemato i tavoli in cortile, perché io dovevo correre in aeroporto. Poi Francesca ha fatto tardi ma la gente l’ha aspettata, non se ne sono andati”.
E qualcuno non si è limitato ad attendere il suo arrivo. Marco, l’amico di infanzia, il vicino con cui ha trascorso tanti pomeriggi sotto il portico, ha voluto omaggiarla con una splendida gigantografia – 3 metri per 3 metri e mezzo – della prima pagina della Gazzetta dello Sport, quella con il suo drittone in volo.
“L’emozione più bella è stata riconoscere l’affetto sincero e gioioso di chi si complimentava. Mi hanno colpito le telefonate dei genitori di Vinci e della signora Garbin, ma anche le parole del giornalista dell’Equipe, ‘al Roland Garros è passato un angelo’.
Mia figlia ha conquistato anche i francesi, ci pensate? E dire che la mattina della finale l’avevo sentita con una voce tanto strana… Francesca, le ho detto, Garibaldi è partito dalla Sicilia, o si fa l’Italia o si muore! E poi ancora, sei davanti alla Bastiglia, ti basta una spinta per entrare. In una circostanza del genere non si può dire tanto e io ho voluto metterla sullo scherzo”.
Da piccola? Un diavoletto
Dalla mamma, un tempo ostetrica alla clinica Mangiagalli di Milano, la “Schiavo” confessa di aver ereditato l’impulsività e la schiettezza. Quanto alle straordinarie doti fisiche, la forza appartiene ai Minelli, la resistenza e la rapidità agli Schiavone. La miscela è un elisir di salute e condizione atletica da superdonna; iperattività e livelli di adrenalina al limite del consentito, da sempre.
“Come era da piccola? Un diaulì (diavoletto, in dialetto bresciano, ndr). Bisognava continuamente inventare qualcosa per riempirle la giornata, altrimenti si stufava. Voleva giocare, giocare, giocare. Prendeva la racchetta di legno del papà e ti-tic ti-tic ti-tic con la pallina contro il muro. I vetri lì fuori erano sempre rotti. Le avevo anche comprato una racchettina più piccola, ma figuriamoci se poteva usarla, lei era grande!”, ricorda la madre. Ostinazione e cocciutaggine, ma di quelle che rilasciano energie positive, perché costruttive, ambiziose. Niente a che vedere con sterili capricci e musi lunghi. Tratti che, maturando, le si riconoscono nello sguardo, nei gesti, in quei balzi e quel suo modo di esultare dopo ogni punto importante che si impossessa di noi e ci scuote dentro, senza il nostro permesso.
“Si faceva fatica a farle fare i compiti, come tutti i bambini. Non che non fosse brava; se ne aveva voglia in poco tempo si sbrigava. Ma se vedeva che in arena i suoi amici stavano giocando era finita (la famiglia Schiavone tuttora vive a Milano, zona Gallaratese, in uno dei condomini più grandi d’Europa. All’interno del complesso – un paese a tutti gli effetti -, sale giochi, parchi e un’arena, utilizzata saltuariamente per spettacoli – decine di anni fa si esibì anche Dario Fo da quelle parti – ma più comunemente per dar sfogo alla vitalità dei più piccoli. Le finestre di casa Schiavone si affacciano proprio su quelle gradinate, ndr). Allora potevo anche farla smettere subito perché tanto non combinava più niente. Calcetto o tennis, con i ragazzi o da sola, sempre a far battere la palla su quei gradini, e ogni tanto le palline finivano su qualche balcone e io a scusarmi. Quante volte mi sono sentita dire ‘Sua figlia disturba!’. Io la richiamavo, ‘Francesca vieni qui’, poi sottovoce le dicevo ‘Fai quello che vuoi”, sorride sorniona.
Quel concorso di musica in Calabria
Sport e attività fisica prima di tutto. Ma anche una predisposizione per la musica che forse solo il tempo le ha impedito di coltivare appieno. Gran parte dei ricordi d’infanzia appartengono a mamma Luiscita, che grazie ai turni di notte poteva occuparsi più spesso di Francesca e Gabriele, il fratello di due anni maggiore. Il padre, funzionario Atm, per via del “regime” da impiegato era fuorigioco.
“A 4-5 anni faceva ginnastica artistica per due pomeriggi a settimana, un giorno nuoto, uno catechismo e uno musica, con Gabriele. Dopo il primo anno il fratello ha capito che non faceva per lui, ma a Francesca piaceva. Avevamo un organo, poi abbiamo comprato una pianola e il pianoforte, che adesso teniamo qui a Bornato. Ancora oggi, dopo tanto tempo, quando si mette davanti al piano il muro vibra. Ogni tanto viene e compone. Certo, deve avere un po’ di tempo. Prima capitava quando rientrava da un torneo, specie dall’America. Magari non riusciva a dormire per via del fuso e si dedicava a quello. Alle medie invece ha imparato a suonare il flauto traverso. Un anno la sua scuola partecipò a un concorso in Calabria e Francesca venne portata come riserva. Giorno dopo giorno però la inserirono nella gara al posto delle titolari e si piazzò al quarto posto. Non dimenticherò mai le parole della professoressa al ritorno. Sa perché ha perso? Per la sua vanità. A un certo punto mentre suonava e tutti l’applaudivano ha chiuso gli occhi, per godersi il momento, e si è dimenticata le note. Me la sono immaginata, Francesca è proprio così. Ma è stata bravissima, quarta su 1200 partecipanti!”.
I primi colpi in campo
I corsi di tennis si sono invece fatti attendere. “Aveva 9-10 anni quando l’abbiamo iscritta per la prima volta alla Accademia Inter, i campi vicino a casa. La maestra Daniela Porzio aveva all’epoca un gruppetto di quindici ragazzini”. “Però i primi colpi li ha tirati con me – interviene il padre -, in un campetto qui in fondo. Pioggia, vento, gelo, andavamo là, pulivamo il campo e ci mettevamo a giocare. Quando si formava il ghiaccio ci voleva anche un’ora prima di sistemarlo. In quei casi via di raschietto e stracci asciutti”.
“Franco, ricordi quell’anno che vinse il torneino del paese? – Luiscita stuzzica la sua memoria -. Dopo la finale gli altri bambini non volevano darle la coppa perché era l’unica femmina. Quanto discutere! Lei protestava ‘Ma io l’ho vinta, io l’ho vinta’. Per non parlare di quando, al saggio finale di ginnastica artistica, l’istruttrice la mise in coppia con l’ultima arrivata. ‘Mamma io non posso sfigurare! Non ci vado più. Dall’anno prossimo faccio tennis’. Quando si metteva in testa una cosa… E le maestre di ginnastica ce l’avevano con me, perché pensavano l’avessi convinta io. Figuriamoci, le avevo anche comprato il gonnellino e il dolcevita bianco”.
Il pomeriggio scorre sulla scia dei ricordi. Attorno a un tavolo, si chiacchiera amabilmente di episodi di vita comune di una bambina qualunque, ora donna straordinaria. “Ma queste cose capitano a tutti i bambini, cosa c’è di tanto strano, Luiscita? – interviene Franco, in tutta la sua concreta normalità. “Certo, dopo quello che ha fatto a Parigi mi rendo conto che tutto diventa interessante, ma la sua storia non è diversa da quella di tanti altri”. I genitori vivono la situazione in serenità. Tra un biscotto, un sorso di caffè e un soffio di vento che di tanto in tanto ci raggiunge scostando la tenda all’entrata. La sirena di un’ambulanza attira la curiosità dei padroni di casa, che si interrompono per un istante. Del resto in paese tutti conoscono tutti.
Poi Franco estrae una bottiglia dalla cantinetta. Il brindisi è d’obbligo. “A Francesca”, fieri. “No, alla vostra, alla nostra salute, che è la cosa più bella che ci sia. Il lunario poi si sbarca sempre”. Il padre: un’ancora fissa a terra, la cui catena si è allungata per permettergli di commuoversi quel leggendario sabato pomeriggio. La figura più lontana che si possa immaginare da un sognatore, ma non perché rinunci a fantasticare. Semplicemente perché, nella sua testa, tanti desideri sono realizzabili. Con coraggio, impegno, fatica e dedizione tanto si può ottenere. Basta volerlo. Riconoscete forse una certa disposizione alla vita? Da qualcuno avrà pur preso, la “Schiavo”.
Il fratello Gabriele, studente modello
Modestia e senso pratico sono comunque peculiarità di famiglia. In soli due giorni la loro “piccola” è protagonista di tutte le aperture dei tg; riceve messaggi dalle più alte cariche dello Stato; viene accolta a Palazzo Chigi dal Presidente del Consiglio; è ospite d’eccezione, in prima serata, di trasmissioni di intrattenimento e approfondimento tra le più seguite in Italia; è invitata a Maranello, nell’headquarter Ferrari, per aver solo accennato alla sua passione per i motori; diventa materia per comici; soggetto di discussioni al bar e nei talkshow… insomma, argomento di cui non si può essere all’oscuro. Partecipando alla rappresentazione da spettatori, ma con il coinvolgimento inevitabile che attanaglia le parentele di sangue, quale reazione, quale moto d’orgoglio ci si attenderebbe? “Insomma, la sua mamma ha fatto tanto nella vita, è giusto che anche lei faccia altrettanto”, il dissacrante commento, adagiato sul tavolo con amorevole orgoglio, quasi fosse una medaglia al valore. “Averla vista in televisione non mi ha creato emozioni particolari. Come certe cose si creano poi si distruggono, meglio stare tranquilli”, il teorema fisico del padre. Appunto.
Al nucleo Schiavone appartiene un quarto, prezioso elemento. Gabriele, lo studente modello: Liceo classico al Beccaria di Milano poi Economia in Bocconi. Ora commercialista. Quel fratello che per la prima volta, proprio in occasione del Roland Garros, ha assistito dal vivo a un incontro di tennis della sorella. “Perché in fondo il tennis non gli è mai interessato – precisa Franco -. Con Francesca si vogliono un sacco di bene. Qualche volta si prendono in giro, qualche volta lui cerca di farla ragionare: un rapporto normale. Gabriele si è dedicato alla scuola, ha preferito così”.
La passione per i motori
“Due anni di differenza sono pochi. E Francesca guardava sempre al fratello! – si riappropria della conversazione la madre -. Un anno, a Natale, voleva la motoretta, era il gioco che desiderava di più. Avrà avuto 4 anni. Io e Franco invece pensavamo di regalare ai bimbi delle bici. Andiamo in negozio e ne acquistiamo due, una piccola e una grande. Eravamo qui in campagna. Durante il cenone, Francesca si affaccia alla finestra per vedere passare il bue e l’asinello e si accorge di un sacco in cortile. Corre fuori e apre il regalo. La bici le piace, ma appena vede che quella di Gabriele è più grande è come se le avessero dato una bastonata. Inutile spiegarle che a lei andava bene quella!”. “Ma sono cose di tutti i bambini – sdrammatizza il papà. “Eh no, questo è il carattere – puntualizza la mamma -, come quella volta in Sardegna, a Porto Rotondo. Era pieno di yacht lussuosi; lei diventava matta. A un certo punto vede un gommone e mi dice ‘Mamma mi devi comprare il motore’. Ma lei aveva un canottino! ‘Quel gommone lì non è niente se mettiamo il motore al mio’. Sembrano stupidaggini ma c’è voluto tutto il viaggio di ritorno per spiegarle che non si poteva fare”.
Prima la motoretta, poi il motore del gommone; crescendo è sopraggiunto il desiderio di un “cinquantino” (ora possiede una Ducati Monster e una Mercedes 270) . Non un semplice scooter. Chi si è trovato, a metà anni ’90, dalle parti di via Arimondi, a Milano, vicino a Piazza Firenze, non può non aver notato una mini Harley Davidson, una rombante Gilera Red Rose blu e panna, guidata da una ragazza dal borsone con racchette. Quello era il suo biglietto da visita. Al Tc Milano si presentava così. Unica, già da allora. “Quella moto la conserviamo qui in cortile. Ha ancora appiccicato il distintivo dell’Asics (il suo primo sponsor di abbigliamento, ndr). Al Bonacossa ha fatto un provino a 11 anni, per entrare nella scuola Sat con Anna Maria Masera e Gianfranco Tonello. Poi più tardi è passata all’agonistica con Barbara Rossi e Maurizio Riva. E’ sempre stata bene lì, c’era un bel gruppo di ragazzi, e ricordo che l’allora direttore del circolo, Giovanni Caporali, aveva un debole per lei. ‘Tu sei preziosa come un topazio’, le diceva”.
Fino a 17 anni una certa stabilità per Francesca: continui progressi, ore e ore di allenamenti al Tennis Club Milano. Il padre, riconoscendo nella figlia la stoffa della vincente, avrebbe anche azzardato a realizzarne un abito da sartoria, ma rivolgendosi all’estero. A quella maison di tennisti che era allora l’Accademia di Nick Bollettieri in Florida. Niente da fare. In quella circostanza fu il cuore di mamma a opporsi. “Come comportarci con Gabriele? Non si poteva proprio fare!”.
Dai 17 il balletto dei coach. Poco meno di un paio di anni a Roma, in Federazione, e il passaggio a Jesi, da Polidori. Poi si sono succeduti, nell’ordine, Tavelli, Panajotti, Coppo per una brevissima parentesi e il ritorno di fiamma con il tecnico argentino a Verona. Il tentativo di condividere le fatiche con l’amica Flavia Pennetta a Barcellona, naufragato rapidamente, e una pausa di riflessione durata mesi.
Il primo trofeo e la ricostruzione sotto il portico
L’aspetto tennistico è sfera di competenza di papà Franco. “La svolta è avvenuta al suo rientro dall’Australia, dove era stata a giocare il torneo juniores. ‘Il tennis non è in Italia’, ci ha detto. E lì abbiamo capito che era disposta a cambiare radicalmente. Ognuno dei suoi coach le ha dato qualcosa e soprattutto, lungo la strada, ha avuto la fortuna di trovare due persone per lei fondamentali, con cui tuttora lavora e di cui si fida ciecamente. Il dott. Formica, di Macerata, specializzato in Medicina Sportiva. Con Francesca è eccezionale. E’ disposto a visitarla in qualunque momento e spesso si è anche spostato da casa per venire incontro alle sue esigenze. Per questo mi ha fatto molto piacere sapere che a Parigi, il giorno della finale, era presente. La seconda persona è il dott. Parmigiani, il suo preparatore mentale, che le è accanto da quando ha 18 anni e che sabato 5 giugno era con lei alle 9 di mattina”.
Viaggiare, vivere lontano da casa, adattarsi alle situazioni, per la “Schiavo” non è mai stato un problema se l’obiettivo era chiaro e condiviso da chi le stava intorno. E i genitori l’hanno assecondata. “In fondo la vita dei nostri figli non ci appartiene. Francesca è sempre stata indipendente e ama stare da sola”. Mamma e papà a casa, a seguirne discretamente la carriera, a battagliare, se era il caso, per alcune scelte non condivise, ma a mostrarle il proprio appoggio e amore incondizionato, ognuno a suo modo. Come il tentativo, andato pazientemente a buon fine, di recuperare la coppa di Tashkent, rovinatasi nel trasporto aereo. “Non potevo proprio buttare il primo trofeo di mia figlia (finalista in Uzbekistan nel 2000, ndr). E’ una bellissima coppa in ceramica, pesa più di 6 chili. Un vaso con tante roselline che nel viaggio si erano rotte. Così mi sono messa sotto il portico, per giorni e giorni, con i pezzettini sul tavolo, cercando di incastrarli e incollarli, come con un puzzle. Ma alla fine ce l’ho fatta”.
Il feeling con Barazzutti
Solo raramente l’accompagnano ai tornei. Le eccessive emozioni non sono salutari e la quiete di casa è sacra, salvo le doverose eccezioni. “Io mi sono già prenotata per Dubai – confessa la mamma -. In febbraio, mi allontano dal freddo, lì mi piace andare. Mio marito invece è stato lo scorso anno a Mosca. Francesca era arrivata da Osaka stremata. Mi chiama e mi dice ‘Mi dispiace che papà sia arrivato fino a qui, ma sono talmente stanca che non so cosa combinerò. E io ‘Non importa, fermati qualche giorno e fai visitare Mosca al papà’. Cosa altro le potevo dire? Poi ha vinto il torneo. Con lei non si può mai sapere”.
“E’ stato lì che ho riconosciuto l’ottimo feeling tra lei e Barazzutti – prosegue Franco -. Forse sarà perché caratterialmente si somigliano, ma sono convinto che a Tirrenia abbia trovato un ambiente che l’ha compresa. Ha bisogno di sentirsi stimata, di comprensione e reciproco rispetto, di un dialogo continuo, così riesce veramente a dare il massimo. In passato ci sono stati momenti complicati, senza dubbio. A 28 anni, quando era scivolata alla 48esima posizione, non è stato facile riprendersi. Ci siamo seduti attorno a un tavolo e le ho chiesto ‘Oggi quanto guadagni? Trovami un lavoro che ti procuri la stessa cifra. Io non ti impongo niente’. Ne è uscita caratterialmente, ancora una volta. Ha capito che le persone che le volevano bene non potevano accettare questa situazione. Da quando è tornata da Tirrenia, la prima volta, ho capito che le cose funzionavano da come ne parlava”.
Il telefono squilla, la signora risponde e chiede cortesemente all’amica di richiamare più tardi “Perché ho a casa gente”. Ora che i riflettori si stanno abbassando, anche i coniugi Schiavone potranno tornare a godersi le sfide a carte, la cura dell’orto, tra una partita e l’altra di Francesca, i profumi e i sapori di una dimensione quotidiana che per giorni è stata loro negata. Prima però, da persone squisite quali sono, assecondano ogni nostra richiesta. Concludono la chiacchierata posando con la copertina del numero speciale dedicato a loro figlia, ci accompagnano in ogni stanza della casa, a scovare indizi curiosi da ritrarre. L’ora della cena è ancora lontana ma l’invito a trattenersi scatta ugualmente. La visita e il disturbo – ce ne rendiamo conto da soli – si sono prolungati oltre misura. Non sarà mai lo zio a mettere fine all’incontro con i nipoti. Ringraziamo affettuosamente e ci dirigiamo alla porta.